
Articolo tratto dal numero di agosto 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Qaraqosh. Erano soli e attoniti, incedevano incerti lasciando orme nella cenere. Là dove la memoria ricordava l’altare, la croce – e l’aria un tempo ebbra di profumo di fiori, incenso, ulivo –, non restavano che crostoni di cemento straziati di crepe e scritte oscene, frammenti di vetri, bossoli, pezzi scomposti di corpi di statue crivellati, le finestre come gole nere trattenute nell’urlo muto delle fiamme che erano divampate nel cielo sopra Qaraqosh. Tante domande, nessuna parola, la bocca piena di polvere.
Eppure, nel silenzio di chi, appena fatto ritorno nella città infranta dall’Isis, si era precipitato insieme a padre Georges Jahola sul sagrato, «quel che restava della nostra grande cattedrale dell’Immacolata Concezione, simbolo della tenacia dei nostri antenati, poveri contadini della Piana di Ninive che l’avevano edificata sudando nei campi e risparmiando sul pane, parlava a ciascuno di noi». Tutt’intorno strade vuote, case bruciate, negozi saccheggiati, cimiteri profanati, tombe aperte da cui uscivano missili e resti umani. Anche a Bartella, Batnaya, Qaramles, Teleskoff, le Madonne erano state decapitate, i volti dei santi scalpellati, le mani mozzate: della chiesa di San Giorgio non restava che uno scheletro carbonizzato.
In fretta, gli iracheni scappati a Erbil, in Kurdistan, avrebbero scoperto che il 90 per cento dei luoghi di culto della Piana di Ninive era stato distrutto o vandalizzato. Ma la grande reliquia della cattedrale li aveva aspettati: «Quel giorno, quei detriti, ci hanno ricordato il nostro compito nella storia. Una cattedrale non finisce andando in pezzi né resta responsabilità di chi ha posato l’ultima pietra. Non è un cimelio, ma un simbolo, una comunità di destino viva. Ognuno di noi, come ciascun nostro avo, sa di essere qui, in questa terra bagnata di sangue da duemila anni, un costruttore di cattedrali».
Parigi. «Non dovremmo espellere i turisti ma i fedeli: sconsacriamo Notre-Dame». Quando Michel Pastoureau, storico e medievalista, ha proposto di trasformarla in un Louvre, in pochi hanno capito che si trattava di una provocazione. Le istituzioni avevano accuratamente evitato di piangere la cattedrale andata a fuoco come luogo di cristianità: l’arcivescovo Michel Aupetit usava parole inequivocabili – denunciando «l’abissale ignoranza religiosa dei nostri contemporanei», «l’unico scopo della cattedrale è quello di essere un luogo di culto, una cultura senza culto diventa incultura», mostrando ai fedeli la corona di spine salvata dal cappellano dei pompieri insieme al santissimo sacramento – e lo Stato francese brigava per ricostruire «il vascello» di sua proprietà, «la navata che ci porta sui flutti del tempo», attrazione turistica che il presidente Emmanuel Macron si guardava bene dal definire “chiesa cristiana o cattolica”.
«Dovremmo rimuovere le panche di legno», ha suggerito l’architetto Jean-Marie Duthilleu, definendo le sedute dei fedeli d’ostacolo alla «contemplazione architettonica», «trasformare l’area in un museo della rinascita», fine dei lavori prevista per l’apertura dei Giochi olimpici del 2024. Intanto lo scorso anno sono stati registrati oltre mille atti anticristiani in tutta la Francia, chiese e ostie profanate, statue di Maria e croci spezzate, pareti deturpate con escrementi. Saint-Denis, Saint-Sulpice, Nancy, Pontoise: ventuno le chiese andate a fuoco negli ultimi due anni, l’ultima quella di Nantes. Decine quelle in vendita, rase al suolo o, come a Rennes, Angers, Poitiers, Rouen, Millau, riconvertite in palestre, discoteche, ristoranti, hotel con spa.
Aleppo. Quattro granate da obici e il crocifisso crivellato, mutilato, le braccia spezzate, non era caduto dalla parete: da cinque anni restava appeso a brandelli nella cappella dei padri gesuiti di San Vartan, «sfigurato come la nostra città, a mostrarci il dolore di Dio di fronte alla brutalità degli uomini». La metà dei fedeli aveva abbandonato la città ma il 95 per cento dei religiosi era rimasto, trasformando schegge di mortaio, pallottole, bossoli in croci e rosari. Di 120 parrocchie su 300, spesso utilizzate dall’Isis come depositi delle armi perché a bombardarle fosse l’Occidente cristiano stesso, ancora oggi restano macerie o luoghi inagibili. Resta la fame, la paura dei missili, del Covid, ma resta anche il Padre Nostro, in ogni crepa la mancanza del corpo di Cristo, la carità guerriera scaturita dall’amicizia tra il vicario apostolico dei latini Georges Abou Khazen, il gran mufti Mahmood Akam e il padre francescano Firas Lutfi.
A dicembre, neanche un mese dopo il martirio di padre Ibrahim Housep Bedoyan, ucciso da Daesh mentre si recava per il restauro di una parrocchia a Deir Ezzor (dove l’esercito turco aveva raso al suolo la piccola chiesa dei Martiri armeni, memoriale del genocidio), la cattedrale armeno cattolica di Nostra Signora del Buon Soccorso colpita da sei missili ha riaperto i portoni. Seguita, a luglio, dalla cattedrale maronita di Sant’Elia. Gira un video potentissimo in rete che mostra piccoli uomini sollevare con le funi immense travi, liberare i colonnati, la grande cattedrale venire a nuova vita salvata da maestranze arrampicate su volte altissime, architetti italiani che guidano il rifacimento del tetto, giovani che trasportano con garbo icone. Su quel brulichio corale, resta fermo solo lo sguardo buono della croce.
Utrecht. La cattedrale di Santa Caterina è stata salvata dalla vendita al Museum Catharijne Convent, ex convento trasformato in galleria d’arte. Almeno per il momento: mancanza di fondi e potenza della secolarizzazione, molte chiese rischiano di condividere il destino di San Giuseppe ad Arnhem, trasformata in pista per skateboard, o della chiesa di Afferden, convertita in tempio buddista. In tutto il paese si contano solo 1.384 chiese e 686 parrocchie, molte sono diventate discoteche, caffè, negozi, si prevede che altre mille chiuderanno entro il 2030. In terra anglicana, dove si chiudono 20 chiese l’anno, per riavvicinare i giovani (come a Liverpool, la navata della cattedrale ridotta a discoteca per un rave), la cattedrale di Rochester ha insediato un campo da minigolf, a Edimburgo una chiesa è diventata il Frankeinstein Pub, a Bristol San Paolo ospita ora scuole di danza e palestra. In Spagna il presidente della Catalogna sanziona l’arcivescovo di Barcellona: ha superato il limite di 10 fedeli celebrando il funerale per le vittime del Covid nella Sagrada Família, ormai considerata museo dove sono autorizzati a entrare ogni giorno 1.000 turisti.
Minya. Sette anni dopo l’incendio durato 18 ore, nella chiesa egiziana di Anba Moussa al-Asswad dedicata a san Mosè il Nero si è tornati a celebrare il Natale copto-ortodosso. Erano 84 le chiese cristiane egiziane distrutte dai Fratelli Musulmani, oggi quasi tutte sono state restituite al culto, come promesso dal presidente Al-Sisi: «Ricostruiremo tutte le chiese, ve lo dobbiamo».
Poche settimane dopo l’apertura di San Mosè, si è onorato il quinto anniversario della morte dei copti decapitati nel 2015 sulla spiaggia di Sirte dallo Stato islamico nella “chiesa dei Martiri della fede e della patria”, innalzata dai cristiani di Al-Our per venerare come icone le loro spoglie.
E, dopo aver ricordato che nella giurisprudenza islamica non c’è obiezione alla possibilità di costruire chiese con i soldi dei musulmani, lo sheikh Shawki Ibrahim Abdel-Karim Allam, gran mufti d’Egitto è intervenuto sulla (ex) basilica di Santa Sofia a Istanbul, dichiarando che nella storia dell’Egitto nessun luogo di culto cristiano è mai stato trasformato in luogo di culto musulmano: illecito convertire una chiesa in moschea.
Treviri. 903 parrocchie ridotte a 35, guidate da “team del futuro”; nonostante il veto vaticano la Chiesa tedesca – che ha chiuso i battenti a 515 luoghi di culto cattolici in dieci anni e demolito per inattività 140 edifici sacri –, continua ad aggiornarsi come Sinodo comanda: basta col “centralismo” di parroco e campanile, benvenute parrochie mondane guidate da team di laci e adatte ai minori, la parola di Dio sostituita da giochi, percussioni, laboratori di pittura. Solo così, dicono dalla diocesi di Essen, «la chiesa potrà diventare multigenerazionale e aperta a tutte le culture e religioni». In Renania si vendono chiese come hotel, a Duisburg e Amburgo sono state adibite a moschee.
Poi c’è la Danimarca: 200 chiese chiuse e quelle rimaste impegnate ad aderire alla chiesa verde climaticamente corretta, tutta edifici a basso consumo energetico, orti e mobilità sostenibile. E c’è l’Austria, dove l’altare cede il posto al palcoscenico: da due anni la cattedrale di Santo Stefano, duomo di Vienna, ospita gli spettacoli di Gery Keszler, attivista omosessuale, e Conchita Wurst (il cardinale Christoph Schönborn, seduto in prima fila ad applaudire l’attore Philipp Hochmair che, seminudo in piedi sull’altare, brandiva microfono e birra).
Istanbul. Migliaia di islamici hanno affollato Santa Sofia per la festa del sacrificio, tra le mura della cattedrale costruita da Giustiniano. Là dove per 916 anni canti e luci avevano accarezzato i mosaici del Cristo Pantocratore, gli angeli e la maestosa Vergine, l’imam Ali Erbas era salito sul pulpito brandendo una spada ottomana e il presidente turco Erdogan non si faceva sfuggire la storica “photo opportunity”, enormi vele di tessuto bianco alle spalle a cancellare e nascondere i mosaici bizantini. Da quando Erdogan è al potere, quattro chiese bizantine sono tornate moschee. «Sei il nostro nuovo Maometto II il conquistatore», ha urlato la folla riunita per la prima preghiera quando ha visto il capo di Stato inquadrato nei maxischermi.
Ritorno a Ninive. Era ancora piena di macerie la chiesa siro-cattolica di San Tommaso, macerie e fedeli, cristiani e musulmani, uniti il 28 febbraio a celebrare la Messa della pace. I terroristi cercarono di abbatterla con diverse cariche di esplosivo, ma a differenza di altre 45 chiese deflagrate o trasformate in prigioni e moschee, San Tommaso era rimasta in piedi; come la chiesa dell’Orologio, a più riprese aggredita dai tagliagole del califfo per i quali «connotava in maniera inconfondibile il profilo del centro storico di Mosul». Il fatto è che, spiega padre Jahola a Tempi, «in queste terre il cristianesimo ha sempre reagito in modo inaspettato alle persecuzioni e ai tentativi di eliminazione. I cristiani non rispondono a sfide e ostacoli secondo il mondo: più aumenta la violenza e il numero dei martiri, più si aggrappano al loro Maestro e Salvatore, difendono i loro simboli».
Distruggere, bruciare e saccheggiare case e chiese: nel piano dell’Isis non poteva esserci posto per i luoghi di quotidianità e fede «così impastati del nostro credo, ma questo non ha fatto che rafforzarlo: per tre anni nei campi dei rifugiati, il “rifugio” è stato un luogo preciso, la chiesa. E quando i cristiani sono tornati a casa, le chiese sono state i primi luoghi in cui si sono precipitati. Io ricordo – racconta il parroco di Qaraqosh – le comunità radunarsi sotto gli altari e le pareti bruciate e distrutte, i fedeli tossire per la polvere, ricoprendosi della cenere che avvolgeva le pareti innalzata dal fiato delle preghiere. Cristiani ricoperti di cenere, perché dalle ceneri rinasce la comunità».
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Grazie all’incredibile progetto di ricostruzione di case, scuole e chiese guidato da padre Jahola per riportare i cristiani nella Piana di Ninive, San Behnam e Sarah è stata riconsacrata. Dei 50 mila cristiani di Qaraqosh scappati a Erbil ne sono rientrati 26 mila e secondo un recente dossier pubblicato da Aiuto alla Chiesa che soffre (protagonista insieme a tanti altri della rinascita delle chiese in Medio Oriente) potrebbero dimezzarsi in quattro anni se il fragilissimo destino dei cristiani nella Piana di Ninive, che ancora subiscono i tentaivi di appropriazione del loro pugno di terra, non troverà priorità e spazio nel dibattito occidentale tra un’omelia sui diritti e una partita a minigolf.
Padre Jahola snocciola i nomi di monasteri e mausolei su cui si è abbattuta la furia jihadista: ne ricorda ogni reliquia, ogni bassorilievo. Si rabbuia quando parla di Santa Sofia, «simbolo cristiano fortissimo trattato alla stregua di una chiesa qualunque dall’Europa. Quando ci rifugiammo in Kurdistan girava la foto di un guerrigliero Isis: brandiva il fucile calpestando con un piede una panca della nostra cattedrale. Ancora non sapevamo cosa stesse accadendo nelle chiese di tutta la Piana, ma restammo increduli e turbati vedendo la nostra casa sacra profanata con tanto spregio. Come è possibile non riconoscere nell’aggressione di un simbolo il tentativo di eliminare l’esistenza cristiana?».
Quando gli raccontiamo della guerra ai simboli, delle statue abbattute e imbrattate in Occidente dalle rivolte antirazziste che non hanno risparmiato chiese e santi, dei roghi appiccati alle cattedrali convertite in musei o discoteche, padre Jahola chiede: «Dov’è l’Europa cristiana? Se non resta salda alle sue radici, il cristianesimo verrà eradicato anche in questa terra santa dove tanto sangue e sudore è stato versato per costruire e difendere le cattedrali. Noi qui resistiamo con tutte le nostre forze, conosciamo il jihadismo, e siamo pronti a difenderci e morire per Cristo: a spaventarci è piuttosto l’insidia occulta e senza volto che grava sul cristianesimo in Europa. Osserviamo le vostre chiese sempre più vuote e anziane: senza radici il cristiano non sta in piedi, diventa come la paglia che il vento tira dove vuole, l’esistenza delle nuove generazioni è minacciata. Proprio come la nostra vita qui nella terra benedetta da Abramo, se l’Europa si arrenderà a fare a meno di Cristo».
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