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Così Roger Scruton in Italia scoprì di essere «un normalissimo borghese»

«Non avevo denaro né un lavoro, anch’io ero un bohémien. Ma non mi piacevano quegli hippy, la cui unica ragione di vita era la ribellione contro i genitori»

Roger Scruton
15 Dicembre 2021
Cultura, Magazine
Roger Scruton

"Roger Scruton no Fronteiras do Pensamento São Paulo 2019" by fronteirasweb is licensed under CC BY-SA 2.0

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Per gentile concessione dell’editore Giubilei Regnani, pubblichiamo un estratto di Vivere conservatore, libro del filosofo Roger Scruton scritto in forma di conversazioni con Mark Dooley (338 pagine, 23 euro).

* * *

«Un anno dopo, a seguito della morte di mia madre, mi ritrovai in Italia, dove il Partito comunista era ben radicato. Non solo i comunisti erano presenti nel governo locale: ma era anche in corso un processo di conquista delle scuole da parte delle squadre marxiste. Era un fenomeno molto evidente e la borghesia era stata marginalizzata e intimidita. La rispettabile Italia cattolica era stata costretta a nascondersi all’angolino. Ciò mi fece aprire gli occhi su quel che stava accadendo e sulla necessità di scegliere da che parte stare. Con grande sorpresa, scoprii che il mio istinto naturale mi portava a schierarmi dalla parte della borghesia».

«Fu davvero una sorpresa perché all’epoca anche io ero una specie di bohémien. A Roma ero tornato a vivere alla giornata, avevo preso una camera da una ragazza che affittava una casa a piazza del Biscione, poco distante da Campo de’ Fiori. Si chiamava Elena Einaudi e suo padre era un pezzo grosso dell’editoria italiana, la solita combinazione tra marxista e milionario. Lei si era allontanata da lui e aveva ripudiato i genitori ma rimaneva in contatto con la nonna, vedova del primo presidente italiano del dopoguerra. A volte andavamo a far visita all’anziana signora Einaudi nella villa che le era stata dedicata fuori dalle mura cittadine».

Dollari “nazisti”

Copertina di Vivere conservatore, libro di Roger Scruton con Mark Dooley«Ci offriva il tè e una fetta di torta e fissava sempre con tristezza l’espressione trasandata di Elena, ricordando i tempi in cui anche lei era stata costretta a vivere alla bell’e meglio. Elena si riteneva un’anima bohémien smarrita che cercava di lasciare il suo segno nella vita sentendosi costantemente una delle “vittime”. Sebbene anche io fossi un bohémien e sopravvivessi sostanzialmente con il minimo essenziale, rifiutai sempre il suo atteggiamento da “vittima”. È buffo, però, il fatto che la vicinanza con la cerchia hippy e bohémien di Elena a Roma mi spinse a comprendere la mia natura e mi accorsi che non appartenevo a tutto ciò. Stiamo parlando del 1966, l’anno delle proteste contro la guerra del Vietnam, quando gli studenti in America seguivano l’esempio dei monaci buddisti vietnamiti bruciandosi vivi».

«C’era poi un’impresa chiamata “Living Theatre”, una sorta di teatro itinerante americano che inscenava piccoli spettacoli che portavano di città in città, come Pagliacci. Erano abbastanza famosi all’epoca. Facevano avanti e indietro sul palco leggendo tutti i numeri stampati su banconote da un dollaro e facendo il saluto nazista. E lo facevano per trasmettere al pubblico il “vero” significato del dollaro! Avevano un certo talento, ma del tipo infantile, a mio avviso. Ad ogni modo, arrivarono in città e si accollarono a Elena stabilendosi nel mio stesso appartamento. C’era una stanza in cui potevano dormire tutti sul pavimento e lì fumavano cannabis mentre offrivano lente e sagge osservazioni su quanto lì fuori fosse tutto alquanto inquietante, hai presente? Da un certo punto di vista sono grato a tutti loro perché mi aiutarono a capire che sono un normalissimo borghese».

«Un paio d’anni dopo, una volta che avevo ripreso a fare ricerca a Cambridge, Danielle, che avevo conosciuto nel corso del mio anno a Pau e che in seguito divenne mia moglie, venne a vivere con me. Non funzionò, però, perché lei non sopportava l’atmosfera di Cambridge e io la capivo perfettamente. Tornò in Francia per insegnare in una scuola e io l’andavo a trovare appena potevo. Tutto ciò andò avanti fino al maggio 1968, mentre mi trovavo a Parigi sballottato tra tutti questi eventi. Ma fu la mia esperienza in Italia che mi rese consapevole della differenza tra un caos autoindulgente e un ordine ben mantenuto. E, senza saperne ancora granché, ero dalla parte dell’ordine».

Droga vuota ed effimera

Ciò, tuttavia, non influì in alcun modo sullo spirito bohémien di Scruton perché, come mi conferma lui stesso, «non avevo denaro né un lavoro, e sopravvivevo dando lezioni di inglese. Non potevo essere altro se non un bohémien. Ma non mi piacevano quegli hippy – la cui unica ragione di vita era l’atteggiamento ribelle contro i loro genitori. Sai, avevo un padre nei confronti del quale sarebbe stato piuttosto legittimo ribellarsi, ma non me ne andavo in giro gridandolo al mondo intero e mettendolo al centro della mia vita. Gli amici di Elena, invece, perlopiù ragazzini viziati provenienti da famiglie del ceto medio, credevano che quella fosse una rivendicazione della loro esistenza, nonché la prova del loro genio creativo».

Ipotizzo che forse quelle persone stessero ricevendo anche un certo sostegno dal mondo filosofico per il loro modo ribelle di vivere la vita. «Oh, sì, erano gli anni di Norman O. Brown, Herbert Marcuse e di tutte le scorribande nei campus della California. E tutto ciò era costruito attorno alla cultura della droga. D’altra parte, come sappiamo ora, quella cultura era del tutto vuota ed effimera».

Una versione di questo articolo è pubblicata nel numero di dicembre 2021 di Tempi. Abbonati per sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Tags: comunismomarxismoroger scrutontempi dicembre 2021
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