

È «pesantissimo» in termini di danni finanziari e vittime economiche il bilancio della guerra del prezzo del petrolio scatenata nel 2014 dall’Arabia Saudita. Repubblica stila un elenco impressionante: «400 miliardi di dollari di investimenti cancellati, 250 mila licenziamenti, un buco di 200 miliardi di dollari di debiti, regine storiche delle Borse di tutto il mondo, come i grandi nomi di Big Oil, detronizzate da bilanci inguardabili». Il mondo assiste a un vero e proprio «collasso di questo pilastro dell’economia e della finanza», provocato dai continui ribassi delle quotazioni di greggio, eppure difficilmente queste «convulsioni» avranno termine a breve: lo ha previsto recentemente Paolo Scaroni in una intervista a Tempi e oggi il quotidiano diretto da Mario Calabresi ne individua il motivo. «I sauditi stanno per vincere la guerra» e non rinunceranno certo al loro piano proprio adesso.
[pubblicita_articolo]MISSIONE COMPIUTA. Il «terremoto» provocato dal crollo del prezzo del petrolio «sta risucchiando forzieri e casseforti apparentemente inattaccabili», scrive Maurizio Ricci. «La Exxon ha dimezzato i profitti, altre sorelle, come Bp e Shell, sono finite in rosso». L’agenzia di rating Moody’s «ha messo sotto esame 175 compagnie del settore energia, fra cui ci sono anche Shell e Total: in tutto 500 miliardi di dollari di debito che non vengono più giudicati sicuri». Anche S&P, continua Repubblica, non prevede nulla di buono: «42 aziende hanno già fatto bancarotta e un terzo di quelle che censisce sono sull’orlo del default». Mentre «i protagonisti della rivoluzione del fracking» – ovvero gli estrattori di “shale oil” che negli ultimi anni hanno guidato gli Stati Uniti verso l’indipendenza energetica, mandando nel panico gli sceicchi – «produrranno almeno 600 mila barili di petrolio in meno del 2015». Secondo Ricci «non è una bolla, ma è un massacro. Ed è quello che i sauditi volevano quando hanno deciso di inondare il mondo di petrolio» per abbatterne il prezzo.
ALLEANZE IMPOSSIBILI. Ci è voluto più tempo del previsto per piegare la resistenza dei pionieri del fracking. Grazie a espedienti finanziari i “trivellatori folli” americani sono sopravvissuti più a lungo di quanto preventivato dagli arabi. Ma ora che «sono indifesi e devono sopportare in pieno l’urto del crollo dei prezzi», e dopo tutti i sacrifici e i tagli di bilancio sopportati dagli stessi sauditi per portare a casa la vittoria, nessuno si aspetta «che Riyad accetti un accordo per limitare la produzione e far risalire i prezzi, nel momento in cui sono riusciti a portare i concorrenti sul ceppo del boia», continua Repubblica. «Altrettanto difficile che siano disponibili gli iraniani, impegnati in questo momento, piuttosto, a riempire di centinaia di migliaia di barili le quote di mercato che, in questi anni di sanzioni, hanno perso». I russi ci hanno provato, la settimana scorsa, a coalizzare un asse internazionale per rilanciare le quotazioni del petrolio, ma il tentativo è fallito. «Roba da idioti», avrebbe commentato stizzito un portavoce di Rosneft.
SENZA VIA D’USCITA? E anche se alla fine si trovasse un’intesa per far risalire il prezzo del petrolio, la situazione potrebbe non migliorare, come spiega a Repubblica Ed Morse, «uno dei guru del settore, capoanalista per Citi». I governi arabi infatti potrebbero decidere prima o poi di tagliare la produzione per far risalire i prezzi, e «il governo russo, con qualche contorsione, anche». Ma dopo che si sono giocati tutto scommettendo sullo shale oil, chi riuscirà a convincere «centinaia di frackers, liberi cittadini americani, a tenere fermi i loro pozzi?». Spiega Ricci: «Se, infatti, come prevedono molti analisti, il fallimento di molti indipendenti americani eliminerà un po’ di surplus di offerta dal mercato, consentendo al prezzo di riavvicinarsi a quota 50, i frackers che non sono falliti si ributteranno in massa a produrre più che possono, inondando nuovamente il mercato e facendo crollare daccapo i prezzi».
Foto petrolio da Shutterstock
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Ma una struttura sociale ed economica dove il giorno prima occorrono 250.000 persone, magari anche molte specializzate, ed il giorno dopo non occorrono più, è una struttura economica e sociale seria?
Andrea, in linea di principio si, e un sistema economico serio. Quando hanno inventato il motore a vapore molti posti di lavoro sono andati persi nell allevamento dei cavallo da tiro. Dico che è serio perché l’ alternativa e bloccare l innovazione. Venendo alla questione dei posti persi nel settore del petrolio purtroppo come dice Cisco il mercato non e mai stato libero. I prezzi sono sempre stati mantenuti alti artificialmente a causa del regime oligopolistico. Nel mercato libero quei posti non si sarebbero probabilmente mai creati in partenza.
Io credo che una società ed una economia equilibrate non debbano poter essere rese instabili dall’innovazione. Un ‘innovazione e’ qualcosa di benefico se porta benessere sociale, o meglio, una società è una società seria se l’innovazione e il “libero mercato” non hanno il potere di renderla instabile.
Molte volte viene fatta passare per innovazione cio’ che fa impoverire i più poveri e fa arricchire i più ricchi.
So che è un po’ azzardato quello che sto dicendo, ma lo voglio dire lo stesso.
Il libero mercato, che, oramai è spesso inteso come un mercato privo di regole, finisce per favorire i più forti che schiacciano i più deboli… L’Italia ora non è tra i più forti e, forse, dovrebbe iniziare un po’ a proteggere il proprio territorio dalle “scorribande” altrui…
L’innovazione dovrebbe essere a favore dell’uomo… Una innovazione che da un giorno all’altro brucia decine di migliaia di posti di lavoro andrebbe seriamente valutata e se e’ indispensabile introdurla, per esempio perché porterebbe un miglioramento reale dello stile di vita, della salute delle persone, va fatto prevedendo misure importanti di supporto alla riconversione…
Ci sono però stati e ci sono tutt’ora molti esempi ove l’innovazione progressista porta ad un peggioramento dello stile di vita e della salute.
@AndreaB
Si ma per farlo occorre che tutti siano d’accordo e senza comunque pretendere di bloccare il processo di innovazione, altrimenti un paese che utilizzasse la carrozza a cavalli e la posta cartacea non sarebbe mai competitivo con gli altri, e quindi perderebbe sempre più occupazione…
Forse c’è qualcosa che non va nel “libero mercato”?
@AndreaB
Quello del petrolio è un mercato tutt’altro che libero e concorrenziale: è un mercato oligopolistico, cioè gestito da un cartello di paesi che ne definisce il prezzo a suo piacimento (sebbene con conflitti decisionali e di interessi al suo interno).
Inolte, insieme a un maggior livello di concorrenza, un “libero mecrcato”, per essere tale, deve essere regolato – sia dallo stato che da organismi sovranazionali – in maniera da mettere tutti i produttori sullo stesso piano, cosa che per il petrolio non avviene, come anche in molti altri casi.
In conclusione, il “libero mercato” non c’entra nulla con il calo dei prezzi del petrolio, in cui invece c’entra molto la geopolitica e il raporto di forza tra gli stati coinvolti (più che tra le imprese).
Non sia ridicolo.
@Cisco
E’ vero. Più sono necessarie grandi risorse per entrare in un mercato e più, è inevitabile, che a “produrre” quel mercato siano in pochi… Se poi si parla di petrolio, che molti non hanno, è gioco forza che si tratti di oligopolio, ma di oligopolio all’interno del cosiddetto “libero mercato”.
Il problema è che una struttura economica forte, ovvero formata da persone sagge, che desiderano il benessere per il loro territorio e per il loro popolo e’ capace di regolare il libero mercato in modo che i suoi lati negativi non possano nuocere.
Se, per esempio, un paese dall’altra parte del mondo riesce a “regolare” l’occupazione nel nostro paese, questa non è cosa buona.
@ AndreaB
Infatti l’economia è un problema sociopolitico, in ultima analisi culturale. Per questo non penso si possa parlare di libero mercato riguarda al mercato d petrolio, dove a farla da padroni sono parsi quali Arabia Saudita, Libia, Algeria, Kuwait, Emirati, Venezuela, ora l’Iran… Non proprio esempi di libero mercato…
Per analizzare i fallimenti del libero mercato gli esempi non mancano, ma ci deve essere appunto un libero mercato. L’occupazione dipende da molteplici fattori, per esempio lo sviluppo della tecnologia, che non sono sempre gestibili dai governi nazionali. Anche per questo esistono le migrazioni.