Cosa non si ricorda sul “caso camici” della Lombardia

Di Emanuele Boffi
30 Luglio 2020
Qualche appunto per ricordare in quale situazione si trovò ad operare la task force regionale che doveva trovare i dispositivi per i medici lombardi
coronavirus

Da mesi va avanti il bombardamento politico, mediatico, giudiziario contro la Regione Lombardia. Qualche giorno fa, Mario Ajello sul Messaggero è arrivato a scrivere che il vero problema del paese nell’emergenza coronavirus è stato «l’egoismo settentrionalista» dell’amministrazione guidata da Attilio Fontana. Di errori, ovviamente, ne sono stati fatti, ma solo chi è prevenuto non vede che alla Regione è stato imputato di tutto, con accuse a tambur battente su ogni fronte: la zona rossa, le rsa, l’ospedale in Fiera e, ora, la fornitura di camici in cui è coinvolta l’azienda Dama del cognato del governatore.

A un osservatore distaccato questo accanimento non può non risultare sospetto, soprattutto se paragonato al “trattamento di favore”, chiamiamolo così, riservato ad altri presidenti di Regione (leggi Zingaretti) cui nessuno si sogna di chiedere conto del loro operato.

I milioni di Zingaretti

Nessuna sorpresa in fondo, accade così da diversi anni e di certo la Regione con i migliori risultati d’Italia, a guida azzurro-verde da lustri, resta una spina nel fianco rispetto al modo di “fare politica” dei centri romani. Un’eccezione fastidiosa rispetto alla mentalità statalista e assistenzialista che va per la maggiore nel nostro paese: ovvio che si cerchi di abbatterla.

Come sempre, però, ogni campagna denigratoria necessita di enfatizzare alcuni fatti e oscurarne altri per colpire l’obiettivo. Anche nel “caso dei camici” di cui si parla molto in questi giorni è singolare l’attenzione verso la fornitura lombarda di 500 mila euro e il silenzio calato invece sul caso Lazio, dove Zingaretti ha versato 13 milioni di anticipo per dpi mai arrivati a un’azienda specializzata nella vendita di lampadine a led. Di qui 500 mila euro (che, tra l’altro, la Lombardia non ha versato), di là 13 milioni per materiale sanitario mai ricevuto. Non vi fa strano che per i nostri giornali lo scandalo più grosso sia quello lombardo?

Perché Fontana non ha fatto niente

Sotto il riflettore ci sono le parentele di Fontana, i soldi in Svizzera, le sue dichiarazioni contraddittorie. A nessuno pare interessante ricordare cosa successe in Lombardia in quei mesi, il clima di quei giorni, la situazione straordinaria che si venne a creare. Soprattutto, nessuno vuole rammentare che in quei mesi, mentre l’Oms e il nostro governo tergiversavano, la Lombardia decise di fare da sola e di arrangiarsi perché se avesse dovuto aspettare le mosse del commissario Domenico Arcuri, bè, campa cavallo, ora saremmo qui a raccontare un’altra storia (e probabilmente, visto come vanno le cose di questo mondo, la storia sarebbe quella di un’indagine “perché Fontana non ha fatto niente”).

Di Maio aiuta la Cina

Ricordate i titoli dei quotidiani di quei giorni? “Emergenza mascherine”, “Mancano i camici e i guanti”, “I nostri eroi in prima fila mandati allo sbaraglio senza protezioni”. Erano i giorni in cui s’era capito che il virus non sarebbe stata una passeggiata: si affievolivano i canti sui balconi, i camion sfilavano per le vie di Bergamo, lo slogan “andràtuttobene” mostrava ogni giorno di più la sua illusoria inconsistenza. E di cosa avevano bisogno tutti e in particolare la Lombardia, la zona più colpita dal contagio? Di mascherine, camici, guanti. Ma nessuno ne aveva e, chi ne aveva, se li teneva ben stretti. Chi l’avrebbe mai immaginato solo qualche settimana prima? Di certo non il ministro degli Esteri Luigi Di Maio che il 15 febbraio alle 14.30 aveva fatto partire dalla base di pronto intervento Unhrd delle Nazioni unite di Brindisi un volo diretto a Pechino. Come raccontò il Corriere, «a bordo c’erano anche due tonnellate di materiale sanitario, regalo della Farnesina alla Cina. Pochi giorni dopo, mascherine e tute di protezione per gli operatori sanitari si rivelarono introvabili nelle zone più colpite della Lombardia».

Sei milioni su 200

La Regione Lombardia organizzò dunque una task force assieme al Politecnico di Milano per reperire le “armi” con cui mandare al fronte i suoi medici e infermieri. Ve ne era un bisogno immediato e di grandi quantità. Per farci capire: in quei giorni la centrale acquisti di Regione Lombardia quantificò un fabbisogno di oltre 200 milioni di mascherine chirurgiche. Sapete quante ve ne erano disponibili? Sei milioni. Sei su 200. Comprare all’estero era impossibile se non a prezzi esorbitanti e così la Regione decise di autoprodursele e coinvolse alcune aziende lombarde, innanzitutto quelle del mondo del tessile, per fabbricare gli indispensabili dispositivi. 

Le telefonate dei cinquestelle

Qui è necessario riportare una dichiarazione di Raffaele Cattaneo, assessore lombardo all’Ambiente, a capo della task force. Qualche giorno fa, Cattaneo ha detto in aula consiliare:

«La task force di Regione Lombardia incaricata di recuperare dispositivi di protezione individuale durante l’emergenza Covid in Regione non si è occupata né di contratti né della distribuzione dei Dpi. Il suo compito, supplendo alle mancanze del Governo, era quello di aiutare le imprese che si volevano riconvertire, segnalando caratteristiche produttive e di qualità per le idonee certificazioni. In quei giorni sono stato destinatario di telefonate e richieste di moltissimi consiglieri, dai banchi della maggioranza e dell’opposizione, che giustamente mi hanno telefonato per segnalare imprese disponibili a produrre e fornire quanto necessario. Ne ho personalmente contattate e sentite decine. Abbiamo portato a certificarsi con marchio Ce 61 imprese che hanno prodotto camici. Qual era l’alternativa in quei giorni? Forse stare seduti sul divano e scegliere la strada dell’irresponsabilità?». 

Quello era il clima di quei giorni: i consiglieri d’opposizione, compresi quelli del M5s, telefonavano «giustamente» a Cattaneo per segnalare aziende che avrebbero potuto “dare una mano”. Onore al merito o concorso esterno?

Indagato perché non ruba

La task force arrivò tra fine marzo e metà aprile a individuare le aziende che avrebbero potuto fornire i camici con certificazione a prezzi ragionevoli. Anche qui, qualche cifra per intenderci: c’erano aziende che offrivano camici a 20 euro, quelle scelte dalla Lombardia avevano prezzi che si aggiravano sulla decina di euro. Tra queste anche Dama, i cui camici rispettavano gli standard fissati e a un prezzo super-ragionevole (6 euro). Di più: Dama non è una bottega di un paesino sperduto in montagna, ma una grande azienda che controlla il marchio di abbigliamento Paul&Shark, che ha un fatturato che supera i 100 milioni di euro e che si rese disponibile per una fornitura di camici da 500 mila euro (quindi non esattamente l’affare della vita per un’azienda di tali dimensioni). Non è almeno plausibile ipotizzare che tale disponibilità sia stata dettata più dalla generosità che dall’intento di arricchirsi?

Fontana ha fatto dei pasticci col cognato, è stato ingenuo e un po’ superficiale? Lo vedremo, ma di certo, come ha scritto Maurizio Belpietro sulla Verità, è la prima volta che «indagano un politico che voleva pagare e non rubare».

Foto Ansa

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