
Corrado Clini, chi è il ministro dell’Ambiente del Governo Monti
Il nuovo Ministro dell’Ambiente è Corrado Clini, classe 1947, attuale direttore generale del dicastero e medico chirurgo specializzato in Medicina del Lavoro. Clini è alla dirigenza del Ministero dal 1990 e oltre agli incarichi istituzionali sino ad oggi ricoperti, ha collaborato con diverse università italiane, l’Agenzia europea dell’Ambiente e l’Onu ed ha partecipato all’elaborazione del “Piano per la riduzione delle emissioni di gas serra”. È autore di oltre 40 pubblicazioni scientifiche.
«Farò di tutto – ha detto all’Ansa il neo ministro – perché la strategia dello sviluppo sostenibile diventi la strategia della crescita dell’Italia». E questo «nel segno della continuità con il lavoro fatto».
Di seguito pubblichiamo un suo intervento apparso su Più Mese, lo speciale Ambiente allegato del settimanale Tempi n.21/2010.
Dopo il disastro
Tra pretese eccessive e scaricabarili a Copenaghen è fallito il tentativo di responsabilizzare il mondo verso l’ecosistema. Corrado Clini spiega perché ora tocca all’Europa riprovarci
Gli sforzi dell’Unione Europea che aveva la leadership sui cambiamenti climatici si sarebbero dovuti concentrare sulla ricerca di una strada alternativa a quella del Protocollo di Kyoto, in seguito alla mancata accettazione da parte del Senato americano della proposta di ratifica del Protocollo e dopo la rottura che si era consumata nel 2000 tra Stati Uniti ed Europa nel corso della Sesta Conferenza delle Parti (Cop-6) della Convenzione quadro sui Cambiamenti climatici. Senza la partecipazione della prima economia mondiale con i maggiori consumi energetici e le maggiori emissioni, il Protocollo veniva fortemente ridimensionato e gli effetti ambientali previsti ridotti ad un valore più che altro simbolico. La prospettiva di ottenere inoltre un qualche impegno da parte delle economie emergenti come Cina, India, Brasile, Messico e Sud Africa dopo l’uscita degli Stati Uniti diventava impraticabile.
Nel 2003, in occasione del turno di presidenza Ue, l’Italia aveva tentato di aprire un dialogo su nuove basi tra gli Stati Uniti da una parte e la Cina dall’altra avviando un’analisi critica sulla reale efficacia del Protocollo. La Ue ha invece convinto la Russia nel 2004 a ratificare il Protocollo senza alcun impegno effettivo in termini ambientali per l’economia russa, proseguendo sulla strada dell’approccio unilaterale e celebrando nel 2005 l’entrata in vigore del Protocollo, 8 anni dopo l’accordo di Kyoto, in uno scenario economico mondiale fortemente mutato rispetto al 1997: le emissioni continuavano a crescere negli Stati Uniti e nei paesi emergenti fuori dagli impegni e dai vincoli di riduzione delle emissioni di Co2.
Lo scetticismo di Obama e Jintao
Nel 2007 il Quarto Rapporto di Valutazione (Ar4) del Panel intergovernativo sui Cambiamenti climatici (Ipcc) riconosceva la necessità di ridurre radicalmente le emissioni globali di almeno il 50 per cento entro i prossimi 30 anni per limitare l’aumento della concentrazione di Co2 in atmosfera, mentre il World Energy Outlook dell’Agenzia internazionale dell’Energia rilevava come il crescente consumo di combustibili fossili delle economie dell’Asia, del Sud America e degli Stati Uniti avrebbe aumentato le emissioni globali di Co2 di circa il 60 per cento entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. Il ruolo e l’obiettivo, seppur limitati, del Protocollo di Kyoto erano a questo punto falliti. Nello stesso anno, a Bali, la Conferenza sui Cambiamenti climatici aveva stabilito una road map per arrivare, nel dicembre 2009 a Copenaghen, alla approvazione di un nuovo trattato in grado di superare Kyoto e coinvolgere finalmente Stati Uniti, Cina e le altre economie emergenti a un impegno comune per la protezione del clima. Nonostante l’evidente fallimento, in due anni di negoziato il modello del Protocollo di Kyoto è rimasto il riferimento principale per i negoziatori dell’Onu e dell’Ue, e in molti hanno pensato fino all’ultimo che Copenaghen si sarebbe conclusa con un “Kyoto 2”. Eppure le conclusioni dello scorso luglio a L’Aquila del G8 e del gruppo delle 18 maggiori economie riunite nel Major Economies Forum sull’Energia e il Clima convocato dal presidente Obama, avevano offerto un messaggio chiaro. Era stato condiviso da tutti l’obiettivo di riduzione delle emissioni globali di Co2 entro il 2050 in modo da limitare l’aumento della temperatura entro i 2 °C, ma nello stesso tempo era stata messa in evidenza la necessità di cambiare la ricetta di Kyoto: la modifica del sistema energetico mondiale necessaria per ridurre le emissioni globali deve passare attraverso l’introduzione di tecnologie a basso contenuto di carbonio nei paesi sviluppati e in quelli in via di sviluppo; da meccanismi finanziari di supporto alla trasformazione tecnologica delle economie emergenti e alla protezione dei paesi più poveri dagli effetti dei cambiamenti climatici; da un nuovo regime del commercio mondiale in grado di superare le barriere tariffarie alla diffusione delle tecnologie a basse emissioni; da un sistema di garanzie internazionali per evitare che gli impegni di riduzione in alcuni paesi non comportino effetti distorsivi a vantaggio di altri. Un “pacchetto” di misure che coinvolge interessi e problematiche solo in parte prese in considerazione in sede di negoziazione internazionale guidata dal segretario dell’Onu e dalla Danimarca e che richiede risposte più articolate rispetto alla semplice definizione di obiettivi vincolanti di riduzione delle emissioni così come previsti nel 1997 dal Protocollo di Kyoto. I nodi ancora irrisolti e le questioni non affrontate avevano fatto dire a metà novembre al presidente americano Barack Obama e al presidente cinese Hu Jintao che sarebbe stato impossibile raggiungere a Copenaghen un accordo condiviso da tutti i paesi in grado di sostituire il Protocollo di Kyoto.
L’accordo impossibile
Gli Stati Uniti e la Cina avevano segnalato l’esigenza di proseguire il negoziato sui molti temi ancora aperti. Il Senato americano infatti nell’ottobre del 2009 aveva negato la “corsia preferenziale” al disegno di legge per introdurre limiti alle emissioni di Co2 seguendo un meccanismo simile a quello europeo, a causa di stime inesistenti sull’ammontare dei costi e sugli effetti in termini di sicurezza energetica e sovranità nazionale. Il Senato inoltre aveva manifestato la sua contrarietà ad assumere impegni che non fossero condivisi anche dalle economie emergenti, prime fra tutte Cina e India. Gli Stati Uniti non erano quindi nelle condizioni di assumere alcun impegno di riduzione delle emissioni a Copenaghen nell’ambito dello “schema di Kyoto”. Non è prevedibile che tale impegno possa essere assunto nel 2010 visto che il Senato americano ha accantonato il disegno di legge e il presidente Obama ha cancellato dalla legge finanziaria 2010 le previsioni di entrata derivanti dal disegno di legge. Nello stesso tempo la Cina, nonostante sia impegnata a migliorare l’efficienza energetica e a ridurre l’intensità di carbonio del proprio sistema di produzione e consumo, era contraria ad assumere impegni di riduzione delle emissioni che avrebbero potuto limitare il diritto alla crescita e la sovranità nazionale in materia di politica energetica e commerciale. Senza un impegno formale da parte degli Stati Uniti e di altri paesi dell’area Ocse per concentrare l’attenzione sugli aiuti finanziari e tecnologici di lungo periodo a favore della diffusione delle energie pulite e a basso contenuto di carbonio nelle economie emergenti e nei paesi in via di sviluppo, la Cina non sarebbe stata in ogni caso disponibile a considerare alcuna ipotesi di impegno internazionale. Purtroppo la Danimarca e le Nazioni Unite, anziché dedicare le ultime settimane di preparazione di Copenaghen alla definizione di un’agenda in grado di mantenere aperto il negoziato al 2010, hanno optato per l’elaborazione di proposte confuse, con l’ambizione di raggiungere una base comune per un accordo impossibile. La Ue di fatto ha assecondato questa linea di azione con l’intento di rivitalizzare almeno il Protocollo di Kyoto per i prossimi anni in vista di un nuovo accordo globale. Mentre Canada, Russia e Giappone hanno affermato di non essere disponibili a proseguire con il Protocollo di Kyoto ma di volere un nuovo trattato che impegni tutti i paesi, il presidente brasiliano Lula ha detto di non avere mai partecipato a un evento internazionale di alto livello così inconcludente e lontano dai problemi reali. Da parte loro, Obama per gli Stati Uniti e Wen Jiabao per la Cina hanno ribadito le rispettive posizioni. Il risultato finale del vertice di Copenaghen è stato modesto, senza impegni e soprattutto senza un’agenda per i lavori dei prossimi mesi.
La forza del Vecchio Continente
In questo contesto, gli impegni unilaterali di riduzione delle emissioni dichiarati da molti paesi a fine gennaio 2010 alle Nazioni Unite a New York confermano la diversità di vedute e di obiettivi emersi prima e durante Copenaghen, oltre a non rappresentare impegni vincolanti. Gli Stati Uniti hanno annunciato una riduzione del 17 per cento entro il 2020 rispetto al 2005 (ossia il 4 per cento sulla base del criterio adottato dalla Ue con il “pacchetto 20-20-20”) a condizione che il Senato approvi la decisione con il disegno di legge che è stato accantonato; Brasile, Cina, India, Messico e Sud Africa dichiarano obiettivi di riduzione dell’intensità di carbonio dei propri sistemi economici che si dovrebbero tradurre in limitazioni nella crescita delle emissioni. Da una parte è evidente la crisi della leadership dell’Onu nell’ambito della negoziazione, dall’altra parte l’Europa è rimasta concentrata sulle sue regole, quasi aspettando che il resto del mondo seguisse il suo esempio. Nel frattempo si sta consolidando la leadership del G2 “di fatto” allargato a Brasile, India, Messico e Russia.
Forse Copenaghen segnerà un passaggio positivo, se l’Europa avrà la lucidità e la forza di avviare una riflessione critica interna per uscire dalle rigidità del modello unico di “comando e controllo” che è alla base del Protocollo di Kyoto. Invece di concentrarsi su complesse architetture legali e sulla costruzione di una nuova burocrazia internazionale dei cambiamenti climatici, l’Europa dovrebbe dedicarsi alla promozione di progetti internazionali in grado di affrontare la sfida tecnologica globale e valorizzare tutte le potenzialità della nostra grande economia integrata, che ha già raggiunto livelli significativi di efficienza e innovazione, e per “testare” possibili opzioni di regole e misure necessarie a costruire una nuova economia globale “de-carbonizzata” in grado allo stesso tempo di sostenere la crescita economica e dimezzare le emissioni entro la metà del secolo.
Dopo Copenaghen, l’Europa deve ripartire dalle soluzioni che già oggi può offrire, meglio e più di quanto gli Stati Uniti e la Cina siano in grado di fare: deve essere costruita tempestivamente una piattaforma europea fondata sui tre pilastri dell’efficienza energetica, delle energie rinnovabili e del nucleare; sulla gestione ambientale delle foreste; su misure finanziarie di supporto e su regole internazionali in grado di sostenere la disseminazione globale delle opzioni tecnologiche e delle best practices disponibili. Due i fronti sui quali occorre lavorare:
internamente attraverso strategie e politiche comuni sia sulle tecnologie che sulle misure finanziarie e le regole di supporto. Nonostante la cornice del Pacchetto Clima Energia e gli obiettivi di riduzione delle emissioni, ad eccezione del settore auto non sono definite politiche europee sia sul versante industriale che su quello fiscale e finanziario di supporto: la mancanza di misure armonizzate per efficienza energetica, standard di efficienza delle rinnovabili, nucleare, fiscalità energetica, agro-zootecnia, gestione delle foreste, finanziamento della ricerca e sviluppo, impedisce di valorizzare le potenzialità del sistema europeo verso un’economia “verde” e “de-carbonizzata”. A questo proposito, l’Emissions Trading ha dimostrato finora di essere uno strumento forse adeguato per le transazioni finanziarie, ma certamente non utile alla promozione dell’innovazione tecnologica nel settore industriale;
a livello internazionale attraverso un’iniziativa europea orientata alla cooperazione tecnologica, con le economie emergenti da una parte e con Usa/Canada/Giappone dall’altra, per utilizzare la “piattaforma europea” come hub globale per l’innovazione e la disseminazione delle tecnologie a basso contenuto di carbonio. L’iniziativa dovrebbe rappresentare un’evoluzione dei meccanismi di Joint Implementation e Clean Development Mechanism del Protocollo di Kyoto, anche introducendo procedure standardizzate e semplificate per la contabilizzazione delle riduzioni delle emissioni e dell’assorbimento di carbonio.
L’Europa può ripartire da L’Aquila attraverso azioni focalizzate su obiettivi e programmi concreti per rispondere alle molte proposte e domande emerse durante il G8 e il Major Economies Forum che possono rappresentare il quadro di riferimento e l’occasione per la nuova iniziativa dell’Europa, dopo Copenaghen. ν
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