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Contrada a tempi.it: «Continuerò a lottare per la verità»

«Non ho da festeggiare, perché la mia pena non è stata la detenzione. Ma l'essere infangato dalle sole dichiarazioni di pentiti». Intervista esclusiva

Chiara Rizzo
12/10/2012 - 16:34
Interni
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L’11 ottobre alle 16.30 Bruno Contrada, ex numero 3 del Sisde, ha finito di scontare i 10 anni di condanna per concorso esterno in associazione mafiosa dopo una complessa vicenda giudiziaria. Contrada era stato arrestato nel ’92 e dopo tre anni di carcerazione preventiva, era ritornato nel carcere militare di Santa Maria Capua a Vetere nel 2007, dal 2008 per ragioni di salute ha ottenuto di scontare la pena agli arresti domiciliari. Contrada si racconta in quest’intervista esclusiva a tempi.it.

Qual è la prima cosa che ha fatto da uomo libero?
Ho cercato di fronteggiare i giornalisti sotto casa, che volevano assolutamente un’intervista. Siccome a casa mia non potevo ospitarli tutti con le attrezzature, perché è angusta e loro erano in una cinquantina, sono sceso in strada qualche istante. Poi sono cominciati ad arrivare amici e parenti che volevano salutarmi. Ma non c’è stato da festeggiare per me. Il fine pena lo festeggiano i criminali e io non ho da brindare, perché la mia pena non è stata la detenzione. La mia è stata una pena soprattutto spirituale. Io non ho sofferto tanto per la privazione della libertà, non era il carcere militare o la mia casa trasformata in prigione a farmi soffrire, ma la sentenza che ha devastato la mia vita, la mia moralità e la mia professionalità. E con ciò non mi riferisco alla carriera: uno può rassegnarsi ad avere la carriera troncata, ma non al trauma che hanno sofferto i miei familiari. Uno dei miei due figli è avvocato, l’altro è agente di polizia: il mio immenso dolore è consegnare loro un nome infangato e consegnarlo ai miei nipoti, anche a quello che porta il mio stesso nome. Infangato “processualmente”, non storicamente. Perché io sono assolutamente innocente.

Perché dice «infangato non storicamente»?
Perché una cosa è la verità processuale, di cui ho rispetto, perché rispetto le sentenze. Perciò ho scontato per intero la mia pena, sia carceraria sia domiciliare. Il mio presunto debito verso lo Stato l’ho pagato. Ma ora ritengo di essere creditore dello Stato del riconoscimento della mia dedizione alle istituzioni che ho servito e amato. Io sono stato un funzionario della polizia di Stato.

Ha più volte chiesto una revisione del suo processo, ma gli è sempre stata bocciata dalla Cassazione. Ha ancora la speranza di riuscire a ottenerla?
Ho presentato più volte la richiesta di revisione, più che altro, per la tenacia del mio avvocato perché ero convinto che la Cassazione difficilmente sarebbe tornata sui suoi passi. Tuttavia, non ritengo vangelo la Cassazione. Ho poca speranza. In ogni caso, finché avrò un po’ di respiro e un attimo di vita continuerò a lottare perché sia ristabilita la verità. Forse perché resto fedele al detto del poeta Eugenio Montale, che dice “L’unica nostra speranza è l’imprevisto”. Finché avrò un momento di respiro non desisterò dalla mia lotta perché sia fatta verità sulla mia vicenda. E questo non lo faccio tanto per me, ma per difendere il mio operato, la mia dignità, il mio onore di uomo dello Stato per i miei figli e i miei nipoti.

Durante questi anni di carcerazione, come ha spiegato ai suoi nipoti la sua vicenda?
Quando mio figlio mi portava in visita i miei nipoti a Santa Maria Capua a Vetere, siccome c’era lì una piccola fattoria curata dai detenuti, dicevo che il nonno stava lì per curare gli animali. Sono troppo piccoli perché spieghi loro cosa è successo. Ho scritto un libro (“La mia prigione. La storia vera di un poliziotto a Palermo”, in libreria da mercoledì 17) e nell’ultimo capitolo racconto quello che vorrei dire a mio nipote Bruno. Gli vorrei dire di credere al suo vecchio nonno. Ma da cittadino italiano qual è, gli dico anche di non credere acriticamente né ai miei detrattori né ai miei estimatori. Caro Bruno, ti lascerò un polveroso, grosso, incartamento processuale dove tu, con un po’ di tenacia, potrai trovare un po’ di verità che altri non hanno trovato.

Quali sono le accuse che le sono pesate di più dal punto di vista umano, tra quelle che hanno portato alla sua condanna?
Una mi ha colpito moltissimo sul piano umano. Nel processo si è tentato di dimostrare che di me dubitasse il mio collega e fraterno amico, e direi davvero “fratello” perché io lo consideravo così, Giorgio Boris Giuliano, ex dirigente della Squadra mobile, e mio vice dal ’73 al ’76 alla Mobile di Palermo, oltre che collega per 16 anni. Abbiamo lavorato giorno e notte, condividendo pericoli oltre che il tempo. Mi ha ferito che in maniera davvero perfida si è voluto instillare il dubbio che lui diffidasse di me. Questo mi ha colpito sul piano umano in maniera davvero lancinante. Una volta, durante il processo, mi alzai in piedi e dissi: accusatemi di tutto, anche di omicidio, ma non mettete in dubbio che questo mio collega e amico non si fidasse di me. Sul piano professionale mi ha pesato l’accusa di aver impedito l’arresto del capo dei capi Totò Riina. Un’accusa smentita dai vari pentiti stessi, anche da Giovanni Brusca.

Il capo del pool antimafia di Palermo, Nino Caponnetto, ha raccontato in aula che di lei diffidava anche Giovanni Falcone.
Questo è argomento di un intero capitolo del mio libro. Caponnetto ha raccontato ciò che sarebbe accaduto il giorno in cui lui e Falcone mi avevano sentito in quanto ufficiale di polizia giudiziaria che aveva seguito le indagini sull’omicidio Piersanti Mattarella (ex presidente della Regione siciliana ucciso dalla mafia, ndr). Quel giorno con me ci sarebbero stati solo loro due, e alla fine della verbalizzazione, Falcone mi avrebbe teso la mano. Secondo Caponnetto, una volta che io mi fossi allontanato dall’ufficio, Falcone si sarebbe strofinato la mano lungo i pantaloni, in segno di disprezzo e ribrezzo per aver stretto una mano “sporca” (di mafia, ndr.). Al processo, non la mia difesa, ma il presidente del Tribunale che mi giudicava fece notare che avevano il verbale del mio interrogatorio, ma che, in effetti, non era stato svolto da Falcone, bensì da Caponnetto e da un altro giudice. Caponetto rispose che il fatto sarebbe avvenuto in un’altra verbalizzazione: ma a processo è risultato che in nessun’altra occasione mi avevano interrogato lui e Falcone, né per quell’indagine né per altre. A Caponnetto, in aula, venne fatta leggere anche un’intervista rilasciata al quotidiano La Sicilia, subito dopo la strage di Capaci e dopo il mio arresto, nella quale lui affermava di sapere solo che ci fosse un’antipatia personale da parte di Falcone nei miei confronti. La verità è che di antipatia non ce n’è mai stata sicuramente da parte mia. E, professionalmente almeno, potrei pensare lo stesso di Falcone: il primo grande processo che istruì contro Cosa Nostra, quello a Rosario Spatola (boss, è uno dei pentiti che ha accusato poi Contrada, ndr) e altri, nasceva da indagini fatte da me. Falcone lo istruì magistralmente con le sue capacità, come ovvio. Ma dopo mi inviò una nota scritta, che io ho portato al mio processo, in cui elogiava la mia professionalità. Non era vero nulla di quello che dice Caponnetto. Ma a processo hanno voluto far vedere che tutti i caduti per la mafia, da Boris Giuliano a Ninni Cassarà a Falcone, diffidavano da me. Ovviamente loro non potevano né confermare né negare.

Qual è l’accusa per cui le riesce più difficile provare la sua innocenza?
Le accuse che non sono state riscontrate obiettivamente, ma che hanno assunto valore di prova solo perché riscontrate da altri pentiti in base al principio della convergenza molteplice. Uno dice una cosa, un altro la ripete,e quella diventa prova di per sé. Io come faccio a dimostrare che non è vero? Mi accusano di aver fatto fuggire da una certa villa Totò Riina. E l’unico riscontro a questa accusa è stato che l’autista pentito descriveva in modo esatto la villa. Ma questo che vuol dire sulla mia colpevolezza o innocenza? È ovvio che l’autista conoscesse la villa, ma non è un riscontro della mia colpevolezza. Ma tant’è: non c’è nessuna possibilità né giuridica né materiale di dimostrare la mia innocenza da accuse generiche, vaghe.

Lei ha ancora fiducia nella giustizia?
Ho fiducia nella giustizia come in tutte le istituzioni, perché se dovessi dichiarare la mia sfiducia dovrei dichiarare pure il mio fallimento. Ma la fiducia nell’istituzione della magistratura e nell’apparato della giustizia, non significa fiducia in tutti i magistrati. È fiducia in quell’istituzione, questo sì, come a quelle istituzioni che si chiamano Arma dei carabinieri, polizia, parlamento, presidenza della Repubblica. Ma questo non significa fiducia verso tutti gli uomini che le hanno rappresentate.

Tags: Bruno ContradaGiovanni Falconemafiasisde
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