Articolo tratto dal settimanale Tempi in edicola (qui la pagina degli abbonamenti) – È da 30 anni che l’Italia si divide sul “concorso esterno in associazione mafiosa”, il reato-che-non-c’è. Non esiste perché nel Codice penale ci sono soltanto l’articolo 416 bis (varato nel 1982) che disciplina l’associazione mafiosa, e il 110, che tratta del concorso nel reato. Combinandoli tra loro, a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, la giurisprudenza ha creato e via via definito la figura criminosa del concorso esterno mafioso. Ma è sempre mancato il passaggio legislativo, l’unico che avrebbe potuto stabilire tassativamente i confini dell’effetttivo fiancheggiamento dell’associazione mafiosa. Che così continua a essere il reato-che-non-c’è.
Nel 1987 Giovanni Falcone, nelle ultime battute del maxiprocesso ter contro Cosa nostra, a Palermo, sollecitava una «tipizzazione» capace di reprimere le condotte grigie che indicava come «collusione e contiguità». Ma da allora non se n’è fatto nulla. Così i pubblici ministeri hanno continuato a fare un uso pieno e disinvolto del concorso esterno. Spesso tra le polemiche, colpendo politici di primissimo piano (da Giulio Andreotti a Giacomo Mancini, da Silvio Berlusconi a Calogero Mannino, da Marcello Dell’Utri a Renato Schifani…), e suscitando ogni volta il dubbio che proprio l’ambiguità della formulazione fosse funzionale a un suo uso di parte.
A vuoto anche Pisapia
Malgrado molti tentativi, il Parlamento non ha mai combinato nulla. Nel corso degli anni, deputati e senatori, di destra e di sinistra, hanno presentato proposte di legge. Senza successo. La lacuna però è grave e oggi è resa ancora più evidente dalla sentenza con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo, il 14 aprile, ha stabilito che l’ex superpoliziotto Bruno Contrada, condannato nel 2007 proprio per concorso esterno, non meritasse il trattamento perché all’epoca dei fatti che gli furono contestati, tra 1979 e 1988, il reato «non era sufficientemente chiaro». Secondo la corte di Strasburgo lo sarebbe divenuto soltanto dopo una famosa sentenza della Cassazione, pronunciata a sezioni unite il 5 ottobre 1994, che per prima ha stabilito una prima tipizzazione coerente. Altre due sentenze delle sezioni unite sono venute nel 2002 e nel 2005 (su Calogero Mannino), ma hanno lasciato molte contraddizioni e ampi spazi d’incertezza.
Intanto la politica, chiamata costituzionalmente a colmare la lacuna, continua a tacere. E anche quando non tace viene zittita dalla magistratura sindacalizzata, che ha tutto l’interesse a conservare la piena discrezionalità. Nel giugno 2001 Giuliano Pisapia, deputato di Rifondazione comunista, aveva presentato una proposta che introduceva nel Codice un articolo 378 bis: puniva con una pena da tre a cinque anni chi «favorisce consapevolmente con la sua condotta un’associazione di tipo mafioso o ne agevola in modo occasionale l’attività». Formula semplice, efficace, pulita. E azzoppata.
La «vergogna»
È stata ripresentata, identica, nella scorsa legislatura da tre deputati del Pdl: nulla di fatto. Nell’agosto 2010 il governo Berlusconi si era impegnato a sostenerla, ma poi fu distratto da altre emergenze giudiziarie…
Nel marzo 2013 ci ha riprovato Luigi Compagna, senatore liberale, riducendo la pena da uno a cinque anni. Ma il presidente del Senato Pietro Grasso, non per nulla ex procuratore nazionale antimafia, ha dichiarato che quella proposta era «una vergogna» (in quanto avrebbe favorito Dell’Utri) e «una fuga in avanti inopportuna». Così è stata ritirata. E il reato che-non-c’è è lì che ancora se la ride.
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