Il Deserto dei Tartari
Il concertone del 1° maggio è ipocrisia al cubo
Il suicidio della Rivoluzione è compiuto non quando Elly Schlein si fa fotografare in trench e si fa intervistare sui benefici dell’armocromia sulle pagine di Vogue, ma quando Piero Pelù ex Litfiba sale sul palco del concerto del 1° maggio, quello offerto “ai giovani” dalla triplice sindacale in piazza san Giovanni a Roma, e canta “El Diablo”. Canzone sospettata di proselitismo satanista in passato, ma che in realtà dovrebbe dispiacere di più a socialisti, comunisti e progressisti vari che ai credenti. La canzone è in giro da più di trent’anni, ma forse non tutti si sono accorti che il rocker non si limita a cantare che «il paradiso è un’astuta bugia» (e qui fanno tutti la ola, da Maurizio Landini a Marco Cappato, da Piergiorgio Odifreddi ad Alessandro Cecchi Paone), ma aggiunge subito dopo che «tutta la vita è una grassa bugia… Tutta la storia è una grassa bugia, tutte le vite per prima la mia».
Ahiahiai, altro che denuncia della falsità dell’ideologia religiosa: qui risulta che non c’è nulla per cui valga la pena lottare, niente ha senso e tutto è falsità. L’ipocrisia è universale, non è più solo quella dei preti. Che fine ha fatto il sol dell’avvenire? Gli ideali di giustizia sociale? Il regno dei fini che Kant ha teorizzato e che Marx, Engels e Lenin hanno cercato di tradurre in storia? La promessa che un giorno verrà il Regno dell’Uomo, verrà dentro alla storia, e sarà tale e quale a quello che era stato spostato in Cielo in forza dell’alienazione propria dell’economia politica?
Una grassa bugia
Se i sindacati permettono di annunciare a una folla danzante il vangelo del nichilismo più disperato, dobbiamo per forza pensare che non solo Dio è morto, ma la rivoluzione è morta, e quelli che la preparavano o la sognavano si sono con tutta probabilità venduti al nemico di classe. Chi glielo dice adesso ai precari e agli atipici di tutto il mondo di unirsi, ai fattorini senza assicurazione né ferie che portano le pizze a domicilio, agli schiavetti che lavorano nei magazzini di Amazon, alle centraliniste che per campare spacciano contratti telefonici capestro, chi glielo dice che il loro compito storico è di ribellarsi, lottare e soffrire perché in quanto sfruttati sono la categoria rivoluzionaria che ci regalerà la società giusta? Tutta la storia è una grassa bugia…
Lenin ha scritto (in Sull’importanza del materialismo militante, mi pare) che c’è più prossimità intellettuale fra un capitalista ateo e il capo rivoluzionario che lo combatte che non fra quest’ultimo e un operaio che crede alla visione religiosa della vita. Perché il primo ha una visione corretta della realtà, il terzo no. Il materialismo borghese è diverso dal materialismo dialettico, ma comunque è filosoficamente più avanzato della superstizione religiosa. Dunque – provochiamo – c’è più prossimità fra Benito Mussolini, che è sempre rimasto ateo anche (e soprattutto) quando firmava i Patti Lateranensi con la Chiesa cattolica, e Lenin o qualunque altro progressista antifascista di ieri e di oggi che considera Dio un’astuta bugia, di quanta non ce ne sia fra questi ultimi e l’operaio che prega, va a Messa e fa battezzare i figli.
Tanti ricordano la famosa uscita del Mussolini transfuga in Svizzera che partecipa a una sfida oratoria a Losanna nel marzo 1904 con un pastore protestante per dibattere dell’esistenza o inesistenza di Dio. L’argomento più efficace di colui che sarà il duce del fascismo è un colpo a effetto: «Se Dio esiste», intima con il mento sollevato nella tipica posa, «gli do dieci minuti di tempo per fulminarmi». E dopo dieci minuti di divertita suspence, i 500 presenti prorompono in uno scrosciante applauso. È lo stesso Mussolini che sul periodico Lotta di Classe avrebbe scritto, alla vigilia del Natale del 1910, «il Natale cattolico è una mistificazione. Cristo è morto e la sua dottrina agonizza. Ma v’è un Cristo vivo: lo schiavo, che attraverso i millenni ha portato e porta la croce della miseria. Questo schiavo non può celebrare il Natale cristiano. Vive nella preparazione e nell’attesa. Aspetta l’Anticristo, prepara la Rivoluzione. Il Natale Umano, verrà».
Gli pseudoribelli
Ecco, l’antifascismo odierno consiste probabilmente in questo: l’affinità intellettuale con Mussolini è finita, perché il capo del fascismo aveva sicuramente una visione materialista della storia, sapeva come i progressisti odierni sanno che il paradiso è una grassa bugia, ma era ancora prigioniero di una visione messianica della storia. Quella in cui le cose hanno un senso e alla fine la giustizia trionfa grazie alla rivoluzione combattuta dagli sfruttati.
Oggi sappiamo che anche il sol dell’avvenire è una superstizione, non lo possiamo dire apertamente nei comizi sindacali e di partito, e allora lo lasciamo cantare a Piero Pelù e agli altri rocker e rapper pseudo-sulfurei. Pseudoribelli e pseudosulfurei perché, dovrebbe essere ovvio, se la loro musica fosse davvero ribellione all’ordine costituito non verrebbero invitati e non parteciperebbero a Sanremo (nel caso di Pelù: edizione 2020). Sanremo è la plateale dimostrazione che il maledettismo rock e lo scorrettismo rap sono sempre stati funzionali al sistema, sono sempre stati – loro sì – un’astuta bugia, una valvola di sfogo per far credere a sfruttati ed emarginati che si può chiamare per nome il nemico e vagheggiare una liberazione, almeno psichedelica.
Ma quando rapper e rocker diventano ospiti o addirittura cantanti in gara a Sanremo, anche lo scemo del villaggio capisce che establishment e ribelli anti-establishment sono in realtà un’unica cosa, e si sentono talmente forti da poterlo esibire senza suscitare reazioni critiche o almeno ilarità, perché il consumatore medio sintonizzato su Sanremo è meno perspicace dello scemo del villaggio.
La solita musica
La musica è diventata da parecchio tempo soltanto un ramo d’azienda del grande sistema universale della produzione e del consumo, all’insegna del materialismo borghese che ha soppiantato quello rivoluzionario (esito che anche Lenin paventava).
Se la religione era ipocrisia (ma non lo è mai stata completamente, perché ha a che fare con evidenze originarie del cuore dell’uomo, ha a che fare con l’insopprimibile senso religioso), il concertone del 1° Maggio è ipocrisia al cubo, con la lotta al lavoro precario sbandierato come la missione del secolo mentre i sindacati stessi si sono avvalsi, stando alle controversie giudiziarie in corso in tutta Italia, dell’opera di lavoratori precari, o con le accuse al ministro della Difesa di essere un “piazzista di armi”, in un mondo dove col modesto complesso militar-industriale italiano rivaleggiano i complessi militar-industriali non solo dell’alleato Occidente ma di tutti i paesi emergenti revisionisti degli equilibri globali (Cina, Russia, Arabia Saudita, Turchia, Iran, ecc.).
La tassa sulla ribellione
Palcoscenico per esibizioni di moralismo e per attacchi al governo in carica che nella realtà prosegue quasi ovunque politiche già condotte dagli esecutivi “amici” della bella gente che sale sul palco di piazza San Giovanni. Il concertone del 1° Maggio è questo e non sarà mai niente più di questo. Lo ha cantato chiaro e tondo, per chi vuole capire, Pietro Pelù, detto Piero. Massì, quel cantante che, stando alle cronache, tre anni fa ha versato a Matteo Renzi 20 mila euro e gli ha chiesto scusa per averlo definito, dal palco del concertone del 2014, «un boy-scout di Gelli».
La tassa sulla ribellione… Sarebbe ora di introdurne una rivolta a tutti i contribuenti, che però produrrebbe gettito soprattutto dalle categorie che vivono dei media e dei social media: attori, cantanti, influencer, ecc. Ridurremmo l’indebitamento pubblico senza passare per Bruxelles.
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