Compagno di scuola

Di Mauro Grimoldi
03 Novembre 1999
Ci fu un tempo in cui positivismo e idealismo pedagogico andarono a braccetto, non calcolando mistero e incongruenza che sta in fondo a quell’essere continuamente creato, affinché nel mondo sia introdotta la più interessante delle facoltà umane, la libertà. Oggi, il politicamente corretto è guazzabuglio di idee e Chernobyl di ciò che resta dell’umano. Di qui la ballata di un prof liceale di lettere prende le mosse. E indica un libera nos a malo

Seduto al tavolo di mogano, a suo modo morbido di calde sfumature, apro, Clemente, il tuo libro.

“Nell’avvampato sfasciume, mi dici tra polvere e peste, al meriggio, la fusa scintilla d’un demone bigio atterga affronta assilla l’ignava sloia dei rari passanti la schiavitù croia dei carri pesanti”.

In effetti, penso, se apro gli occhi oltre la finestra, fin nel cuore della piazza settembrina, quando il sole ha già il sapore dell’autunno e della vertigine estiva rimane solo qualche ostinato brandello, sale dal cuore l’eco di quello struggimento: “sono come pecore senza pastore”.

“Non c’è gruppo di ragazzi, incontrato per strada, che non potrebbe essere un gruppo di criminali… Il loro silenzio può precedere una trepida domanda di aiuto (che aiuto?) o può precedere una coltellata… Sono regrediti – sotto l’aspetto esteriore di una maggiore educazione scolastica e di una migliorata condizione di vita – a una rozzezza primitiva. Se da una parte parlano meglio, ossia hanno assimilato il degradante italiano medio, dall’altra sono quasi afasici: parlano vecchi dialetti incomprensibili, o addirittura tacciono, lanciando ogni tanto urli gutturali e interiezioni tutte di carattere osceno. Non sanno sorridere o ridere. Sanno solo ghignare o sghignazzare”. Sono passati quasi venticinque anni da quei primi giorni del 1975 in cui, Pier Paolo, ti è forse accaduto di percepire tra i primi le invisibili radiazioni di una terrificante Chernobyl (non alberi e case, ma occhi, braccia, cuori) e che hai fatto? Stretto da un dolore impotente, avresti immaginato le migliaia di sapienti definizioni che si sarebbero succedute attorno al capezzale di tutta una civiltà? Il mondo celebra il proprio fallimento colorando a tinte vivaci le sue giustificazioni (“a vizio di lussuria fu sì rotta che libito fé licito in sua legge, per torre il biasmo in che era condotta”), l’ossequiosa o incosciente dedizione alla menzogna, e perciò alla violenza, nella speranza che l’odore di carogna sospeso sopra le rovine di Babele non squarci il velo di finzione che copre le crepe dei grattacieli e delle città: “quando la Chiesa non è più considerata, e neanche contrastata, e gli uomini hanno dimenticato tutti gli dei, salvo l’Usura, la Lussuria e il Potere”.

Ha fallito il mondo, ma non lo dice. Lascia che la propria muta confessione si legga sui volti accidiosi e tristi che affollano gli autobus mattutini, quando la nebbia è densa e le ossa scricchiolano sferzate dal gelo dell’inverno. Ha fallito il mondo se incide i propri proclami a lettere cubitali sopra i portoni delle scuole: DIRITTI, REGOLE, DISCIPLINA, COMPETENZA, PROFESSIONALITA’, GENTILEZZA E SPONTANEITA’. (Una sana passeggiata lungo le vie di un virtuismo a buon prezzo:
– Andiamo? – Andiamo pure…

Antica trattoria “La pace”
Con giardino, Fiaschetteria, mescita di vino…

Hotel Risorgimento e d’Ungheria.

Lastrucci e Garfagnoni Impianti moderni di riscaldamento:
caloriferi, termosifoni.

Via Fratelli Bandiera Già via del Crocifisso.

Saldo Fine stagione Prezzo fisso…).

Intanto, accompagnato dal superbo biasimo di quello stesso mondo, Erra, tra polvere e pèste, Il gonzo pecorume Dei ragazzi di scuola, E, palloncini sugli spaghi, oscilla Dai corpi smilzi il vuoto delle teste…

Il mondo ha fallito; come Caifa nel sinedrio, si straccia le vesti; irride lo scemo del villaggio e, con mano graziosa, gli offre il suo dono, prezioso: INGLESE E COMPUTER. Per tutta l’Europa, fin oltre l’Atlantico, il deserto procede come l’esercito di Attila: non abbiamo lavoro da offrire (in questa terra ci sarà una sigaretta per due uomini, per due donne soltanto mezza pinta di birra amara), ma le scuole, linde come giardini d’infanzia e tetre come i vicoli del Bronx, quando lo sciacallo fiuta i bidoni della spazzatura.

Mi alzo e, colto da capogiro vado ad aprire la finestra. Una brezza, dolce, di aria fresca invade la stanza, sfogliando le pagine dei libri aperti sul tavolo. Aria fresca, come quando si posa, sopra i nostri volti spossati, lo sguardo d’un uomo che attraverso gli occhi penetra fino al cuore e, vincendo detriti e macerie vecchie di cinquecento anni, lo scuote e ne libera il palpito. Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi? Chi sono io, perché qualcuno si pieghi fino alla mia povertà e la ridesti, conducendola là dove neppure oso sperare? Un’aria fresca di stima (perché l’intero universo è nulla dinanzi a questo piccolo bambino che muove i suoi primi, incerti, passi sulle strade del mondo), nell’Uomo che chiama l’uomo a una dignità regale. “Ecco, davanti al tuo tremore, la storia! Ecco i suoi sentieri! A te li consegno. Sono cosa mia e ne faccio cosa anche tua”. (“Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e d’onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi”). È l’aria della primavera, tempo di resurrezione, che spolvera l’anima come una massaia operosa e non teme che la libertà si metta in moto, nella sua imprevedibilità sorprendente e terribile. Quando le povere mura di questa parte di periferia che ho sotto gli occhi, quando le aule bianche della polvere impalpabile del gesso salutano, persino nel torpore del mattino, l’aria fresca che scuote la conca del cuore e lo fa parlare e lo fa muovere, allora accade, si vede, come ho visto, compiersi l’augurio che, Clemente, mi hai consegnato all’inizio di questa conversazione:
Risbaldiscono i passanti, Schioccano i cavallanti Dai carri dai mozzi sonanti;
Gli alberi ondeggian con verdi richiami L’ombra e le foglie dai tronchi e dai rami, Radiose pupille dai muri alle soglie S’aprono al fiotto vitale Del soavissimo fiume Che stilla e s’assapora Nella freschezza irrequieta Dei ragazzi di scuola…

Perché quando l’uomo è toccato nella radice profonda dell’essere suo, allora più chiara è l’impronta che lascia di sé in ciò che conosce e in ciò che opera, come più chiaro traspare agli occhi di chi è amico o nemico la forma che il destino ricrea nel corpo e nell’anima di chi percorre la via e non la lascia com’era, ma porta qualcosa di nuovo, di suo, di tutti.

Anche oggi, quando il mondo è un mondo di lupi e andare a scuola è come prepararsi alla guerra, e un po’ già combatterla.

Ricordando le parole di Neemia il Profeta: “Con la cazzuola in una mano, e la pistola pronta nella fondina (…) L’uomo che durante il giorno ha costruito qualcosa, quando cala la notte ritorna al focolare: per essere benedetto dal dono del silenzio, e prima di dormire si assopisce. Ma siamo circondati da serpenti e da cani: per cui qualcuno deve stare all’opera, e altri tenere le lance”.

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