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Come si fa a imputare al cristianesimo il diffondersi dell’individualismo?

Note a margine a un'intervista di Umberto Galimberti al Corriere in cui si dà un'immagine irrealistica del cattolicesimo. Parla il professore Francesco Botturi

Leone Grotti
19/11/2020 - 3:00
Cultura
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«L’intervista a Umberto Galimberti contiene un attacco critico al cristianesimo che sorprende e lascia perplessi». Così Francesco Botturi, già ordinario di antropologia filosofica e filosofia morale dal 1997 al 2017 presso l’Università Cattolica di Milano, commenta l’intervista di Walter Veltroni al filosofo uscita martedì sul Corriere. Parlando degli effetti della pandemia sulle persone e la società, il docente all’Università di Venezia se ne esce con alcune considerazioni stravaganti. Riferendosi alla prescrizione del distanziamento sociale, in particolare, afferma che non dobbiamo abituarci «a considerare la società come un’appendice dell’individuo. Questo è tipico della cultura cristiana, lo devo dire con chiarezza. […] Il cristiano ha messo in circolazione il concetto di individuo, “l’anima la si salva a livello individuale”. Ad un certo punto la società è stata percepita semplicemente come qualcosa che non deve costruire il bene comune ma, lo dice sant’Agostino, è incaricata di togliere gli impedimenti che si frappongono alla salvezza dell’anima. Quindi un lavoro solamente negativo. Nel Contratto sociale Rousseau dice che il cristiano non è un buon cittadino, lo può essere di fatto ma non di principio, perché il suo scopo è la salvezza dell’anima. Ora questa cultura dell’individuo, che non era greca ma propriamente cristiana, ha fatto sì che oggi ci si lamenti dell’individualismo, dell’egoismo, del narcisismo. In sostanza del fatto che ciascuno pensi solo a se stesso». C’è dunque il cristianesimo, e in particolare il cattolicesimo, alla base dell’individualismo esasperato che oggi domina la società? «Non mi sembra proprio sostenibile», dichiara Botturi a tempi.it.

Professore, ha ragione Galimberti?
Attribuire al cristianesimo, specialmente al cattolicesimo, la responsabilità del diffondersi dell’individualismo è spropositato. È vero che l’individualismo religioso, in termini di spiritualità, era diffuso nel cattolicesimo preconciliare, tra fine ’800 e inizio ’900, quando la dimensione comunitaria si era appannata, ma la grande tradizione cattolica, che anche a questo proposito è stata ritrovata nel Concilio Vaticano II (la “Chiesa di comunione”), è sempre andata in tutt’altra direzione. Sfido a trovare un primato dell’individualismo nel pensiero dei padri della Chiesa, nella Chiesa medievale, rinascimentale e moderna barocca. Piuttosto, l’individualismo cristiano ha la sua origine nel protestantesimo di matrice luterana; ma già nel protestantesimo calvinista le cose stanno diversamente; e anche il protestantesimo sociale ha influenzato in ampiezza e profondità il mondo moderno (si pensi ai “padri pellegrini” fondatori degli Stati Uniti).

Da dove nasce allora la critica di Galimberti?
Sembrerebbe risentire del pensiero di Feuerbach e poi del Marx della Questione ebraica. Marx individuava nell’ebraismo la radice di una concezione individualistica della salvezza, trasmessa al cristianesimo che ne sarebbe stato il diffusore. Ovviamente questa versione della cosa è molto discutibile, a cominciare dal fatto che, se c’è una religione dove il senso del popolo è essenziale e forte, è quella ebraica. Ad ogni modo Marx, che aveva nella religione il suo oggetto polemico per eccellenza, criticava l’individualismo ebraico-cristiano come presupposto e componente del capitalismo; ma Marx era sotto l’influenza del protestantesimo, come già lo hegelismo. Perciò prendere un tale discorso sulle radici ebraico-cristiane dell’individualismo, svuotarlo dai suoi reali riferimenti e applicarlo al cattolicesimo mi sembra un’operazione sgraziata.

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Galimberti però cita anche sant’Agostino.
Io non so come si possa ridurre sant’Agostino a uno spiritualista individualista. È l’autore della Città di Dio; se c’è qualcuno che ha un’idea sociale della religione, questi è lui. Anche in questo caso Galimberti estrapola un riferimento dal suo contesto e gli fa dire ciò che vuole: si riferisce all’affermazione secondo cui l’autorità politica (non “la società” come afferma Galimberti) è incaricata di togliere gli impedimenti che si frappongono alla salvezza dell’anima. Questa affermazione non significa però che il potere politico non deve occuparsi del bene della città, bensì che essa, quanto al cammino di salvezza degli uomini, deve prestare il suo aiuto negativo (rimuovere gli ostacoli) e non intervenire ulteriormente; il potere politico non ha titolo per interessarsi attivamente della salvezza (che è faccenda dei singoli e della Chiesa). Che cosa c’entra tutto questo con l’individualismo? 

Galimberti si riferisce anche a Rousseau
Sì, là dove Rousseau afferma che il cristiano non può essere di principio un buon cittadino perché il suo scopo è la salvezza dell’anima. La prima risposta è che anche nel caso di Rousseau il referente immediato è una certa spiritualità protestante di impronta individualista. Ma non si può ignorare che la sua valutazione dipende anche dal fatto che egli ha una concezione della politica come totalità avvolgente che non sopporta appartenenze diverse e superiori, e che vede quindi l’appartenenza religiosa come un sottrarsi all’appartenenza politica. Bisognerebbe aggiungere, quindi, che un certo modo di intendere la politica in età moderna ha contribuito in modo determinante a dar vita all’individualismo. Ma su questo Galimberti non dice nulla.

Che cosa manca?
L’analisi delle radici robuste dell’individualismo che conosciamo oggi, che non sono di origine religiosa, ma politica. Riassumo brevemente tre passaggi.

Prego.
Il primo passaggio riguarda Thomas Hobbes, il fondatore – per così dire – della teoria politica moderna: fu lui il primo a teorizzare che lo Stato, per garantire la pace sociale e politica, deve avere di fronte a sé soltanto individui, perché ogni formazione comunitaria è sospetta e rappresenta un’oggettiva minaccia alla sovranità assoluta del Sovrano. Come è stato scritto, la sovranità hobbesiana ha una premessa anticomunitaria e si regge su una sistematica de-socializzazione dei sudditi.

Il secondo passaggio?
Riguarda il liberalismo, la visione secondo cui, per ovviare alle inefficienze e agli impedimenti della società autoritaria e per favorire invece la nuova realtà del mercato, bisogna trasferire la sovranità dallo Stato agli individui in quanto agenti economici. Si sottolinea così il ruolo degli individui, quali attori sociali ed economici autonomi e sovrani, di cui il mercato ha bisogno per prosperare.

Arriviamo a noi.
Un autore intelligente come Roberto Esposito si è concentrato su una terza forma di individualismo, tipica del nostro tempo: quella del libertarismo. La sovranità, che un tempo era del potere assoluto e poi degli individui proprietari (Locke), attori delle relazioni mercantili, viene ora attribuita ai singoli individui, soggetti dei diritti civili. Questo robusto e radicato individualismo non ha genealogia cristiana, anzi è anticristiana perché esalta un’idea parzialissima se non patologica di libertà, quale autosufficienza autoreferenziale, tendenzialmente dispotica: il corpo è mio, il feto è mio, il sesso è mio…

Poco oltre Galimberti, riferendosi in specie all’Italia, parla anche della «dimensione della famiglia» e, in continuità, della «struttura sociale familistica», che sarebbero all’origine di tipici e gravi difetti del costume italiano, sino all’estremo della realtà mafiosa. Qui la critica religiosa non è espressa, ma probabilmente è implicito un riferimento al cattolicesimo, quale sostrato della cultura italiana.
Dal contesto dell’intervista sembra che questa critica alla famiglia/familismo sia in continuità con la critica all’individualismo e alla sua matrice religiosa. Ma non comprendo il rapporto tra una cosa e l’altra. Né può essere identica la matrice dell’individualismo e del familismo. In ogni caso famiglia e familismo non sono la stessa cosa; il secondo è una restrizione, se non una degenerazione, della prima. E non si può squalificare la famiglia, perché – come tutte le realtà umane – è suscettibile di corruzione. Piuttosto, mi meraviglio che, avvertito del problema dell’individualismo, Galimberti non veda se non il possibile negativo della famiglia e non piuttosto il versante positivo di essere una fondamentale risorsa per educare i più giovani al senso delle indispensabili relazioni, per avviare i più giovani alla vita sociale, per riacquisire il senso della comunanza e della comunità. Se poi, in tutto ciò vi fosse anche un’intenzione di un’indiretta critica al cattolicesimo, ne sarei davvero rammaricato.

Galimberti è un noto e importante studioso. Come mai assume posizioni così poco articolate?

Sono d’accordo, come collega e amico di Umberto, sull’importanza dei contributi filosofici e culturali. Tuttavia è dotato anche di una vena anticattolica che ogni tanto riappare. In definitiva non riesco a pensare se non a un’operazione giornalistica che ha lo scopo di lanciare un messaggio.

Quale messaggio?

Uno del tipo: «Il cristianesimo non può essere una risorsa per rianimare la nostra società gravata dal Covid e bisognosa di rivedere le sue impostazioni», perché il cristianesimo è parte in causa con le ragioni profonde dei nostri mali. Se è così, si tratta di un’operazione pesante e ideologica. Tanto più che oggi la Chiesa, nonostante i suoi difetti, è in modo evidente un luogo di viva umanità e di consapevole socialità a favore di tutti.

@LeoneGrotti

Foto Ansa

Tags: cattolicesimocristianesimofrancesco botturiumberto galimbertiwalter veltroni
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