Come se non fosse già abbastanza sfortunata, ora la cattiva ragazza è anche inflazionata

Si cominciò con “Le brave ragazze vanno in Paradiso, le cattive vanno dappertutto”. Da lì in poi la fortuna, mediatica e pubblicitaria, delle “cattive ragazze” non conobbe più limiti. Ormai ogni settimana c’è una nuova “cattiva ragazza” che ci guarda con aria ostile da un manifesto che ci informa che “bad girl” compra la tal marca di occhiali, indossa quegli stivali, o compra qualche altra cosa. Chissà se i pubblicitari, pazzi per queste cattive ragazze, sono davvero sicuri del fatto loro. Perché, a vederle così, scontrose, pallide, con aria insieme presuntosa e scontenta, queste bad girl sembrano piuttosto la celebrazione di quanto la donna “cattiva” sia infelice. Naturalmente la donna “cattiva” non è un’invenzione recente. Nel cinema, ad esempio, la “dark lady” c’è sempre stata, e ha anche avuto i suoi ammiratori. La Dietrich era dark, la Garbo un po’, Bette Davis quasi sempre. Ma a nessuno era mai venuto in mente che essere una dark lady fosse un modo per essere felici. Era un modo di rubare gli uomini alle altre, di rovinarli, dominandoli e umiliandoli. Loro però, le donne cattive, non è che invece di andare in Paradiso capitassero in situazioni attraenti: finivano al manicomio, o suicide, o comunque male. Signore a volte famose che cercano di uccidere mariti miliardari ma non la passano liscia. O perché vengono scoperte prima e vanno in prigione, o perché ci riescono e allora va anche peggio. Essere cattivi non paga, perché, come ogni filosofia ha sempre saputo, è segno di squilibrio, è un tentativo di sistemare la situazione personale aggredendo o utilizzando quella di un altro, e questo crea dipendenza, insicurezza, pericolo.
Fra le scemenze venute di moda negli ultimi trent’anni non poteva però mancare anche questa, che essere cattive va benissimo, anzi, è un passepartout per il successo. Non importa che le cattive fanno dentro e fuori dagli ospedali psichiatrici, che sono abbandonate da tutti. No: le ragazze cattive vanno dappertutto. E diventano icone della moda per marchi e pubblicitari a corto di idee.
Temo che questo “orgoglio della cattiveria”, come ogni altro tipo di orgoglio, di “Pride”, non porti fortuna e simpatia alle bad girl. E mi spiace per loro, già così sfortunate a non potersi godere il “paradiso” delle brave ragazze fatto di affetti solidi e (quasi) sicuri, coscienze tranquille, occhi splendenti perché non hai granché da rimproverarti, cosa che rende il tuo sguardo più attraente di qualunque rimmel da dark lady, per quanto sapientemente pennellato. Su queste infelici creature, che spesso anche per sfortunate biografie personali (come sa bene lo psicoanalista) non conoscono la benedizione dell’essere buoni, o almeno di sforzarsi di esserlo, si sta per abbattere anche il sicuro risentimento che sempre colpisce l’eroe negativo, quando i suoi laudatores perdono il senso delle proporzioni e rompono le scatole a tutti cantandone le risibili gesta. Attente bad girl. Se proprio non potete smettere di essere cattive, almeno obbligate i pubblicitari a non utilizzarvi per vendere le loro scemenze. O vi troverete ad affrontare, oltre che l’ostilità delle vostre vittime, anche la furia di automobilisti e pedoni, stufi del vostro sguardo corrucciato insolente che li perseguita mentre, la mattina presto, inaugurano la loro giornata di ottimi madri e padri.
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