Circa duemila dottorandi italiani (forse) un giorno insegneranno. Gli altri 10 mila cosa faranno?
Il dottorato in Italia non funziona. Degli oltre 12 mila laureati che ogni anno accedono ai percorsi di ricerca, infatti, solo 2 mila (circa il 16%) riescono realmente ad entrare nei ruoli universitari. E non senza aver prima superato un estenuante percorso a ostacoli fatto di borse di studio post dottorato, assegni di ricerca e contratti precari della durata di anni. Mentre per tutti quelli che non riescono a trovare una posizione in ateneo, si riapre con almeno un paio d’anni di ritardo rispetto ai loro colleghi laureati più giovani la prospettiva di doversi nuovamente cercare un impiego.
SCUOLE AUTOREFERENZIALI. Il dato è contenuto in un rapporto redatto dall’Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani è stato recentemente ricordato in un incontro organizzato dall’Università di Bergamo e da Csmb-Adapt, diretto da Michele Tiraboschi. «I dottorati di ricerca italiani», scrive Tiraboschi in un documento preparato per Adapt, «si sono caratterizzati, spesso in negativo, come scuole autoreferenziali di formazione e cooptazione di accademici e futuri professori, più che come centri di innovazione, trasferimento tecnologico e più in generale di avanzamento delle conoscenze del sistema economico, sociale e produttivo del Paese».
Non solo, in Italia stentano ancora a decollare, a più di dieci anni dalla loro introduzione, anche il dottorato in apprendistato e quello di alta formazione, che dovrebbero rappresentare un punto di contatto tra accademia e imprenditoria nell’insegna dell’innovazione e ricerca.
L’ALTERNATIVA. Stessa sorte è toccata finora anche al dottorato industriale, introdotto l’8 febbraio 2013, ma rimasto lettera morta nella prassi operativa. Questo nonostante sia prevista la possibilità per le imprese di dedurre integralmente il reddito d’impresa imponibile per i fondi destinati al finanziamento della ricerca. Non sorprende, pertanto, constatare che la quota di investimenti privati in attività di ricerca svolte nelle università italiane sia pari all’1% a fronte di una media europea del 6,8%.
Secondo Tiraboschi, «i dottorati industriali di successo e anche i percorsi di dottorato c.d professionalizzante (…) nascono dal convinto interesse di università e sistema economico-produttivo a sperimentare innovativi percorsi di ricerca incentrati su metodi formativi e di apprendimento da realizzarsi prevalentemente in ambiente di lavoro e, in ogni caso, per situazioni di compito». Non, dunque, dal tentativo di trovare «un ripiego rispetto alla carriera accademica».
IL MODELLO TEDESCO. E forse è per questo motivo che in Germania – si legge in un testo scritto da Martina Ori di Adapt -, dove il comune «interesse» tra imprese e università è probabilmente più vivo, ogni anno dell’ultimo decennio hanno conseguito il titolo di dottorato circa 24 mila persone, dato superiore del 2,5 per cento alla media Ocse. E il 60 per cento dei dirigenti delle imprese quotate in borsa ha un titolo di dottorato. Dottorati che sono gratuiti per sei semestri ma non sono automaticamente accompagnati da alcuna borsa di studio, anche se l’80 per cento delle persone che li frequenta ha già un contratto di lavoro a tempo determinato presso l’università dove svolge il dottorato (nel 76 per cento dei casi), da ricercatore presso enti di ricerca non universitari (8 per cento) e, con riferimento al dottorato industriale, un regolare contratto di lavoro con l’impresa (16 per cento).
NON BASTA L’IDEA, BISOGNA LAVORARE. L’inconveniente rispetto all’Italia è rappresentato dal fatto che in Germania «spetta al futuro dottorando di preoccuparsi autonomamente di trovare un professore che accetti di fare da supervisore della tesi, indipendentemente dal fatto che il dottorato sia svolto in università o in azienda», spiega Ori. «Questa è la conditio sine qua non per attivare il dottorato: il giovane ha in mente un’idea o un progetto, lo descrive, trova un supervisore e chiede l’attivazione presso l’università». Nel caso di un dottorato industriale, poi, spetta sempre «al giovane laureato cercare e presentare la propria candidatura presso un’impresa che abbia interesse a promuovere e finanziare un contratto di lavoro per una persona che svolga internamente un dottorato».
Se la selezione va a buon fine, il giovane dovrà poi cercare il supervisore presso una università, spesso tramite i propri ex docenti universitari. Molte grandi imprese tedesche, inoltre, soprattutto nel settore automotive, biotecnologie, energia, ambiente, industria farmaceutica e comunicazioni offrono in prima persona posti per giovani che intendono svolgere un dottorato. In questo caso, il tema di ricerca viene generalmente proposto dall’azienda. Il rapporto che si instaura è in tutto analogo a un vero e proprio rapporto di lavoro, a tempo pieno o parziale.
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Il fatto è che in Italia manca completamente, non solo una politica della ricerca da parte dello stato, ma addirittura una cultura dell’innovazione da parte di chi dovrebbe essere interessato, anche economicamente, ad essa, ossia l’industria. O meglio, quest’ultima l’ha persa strada facendo; perché, quando l’allora Montecatini – non ancora Montedison e ancora veramente privata – intravide i possibili risultati delle ricerche di Natta sulla catalisi stereospecifica, ebbe il coraggio di “scommetterci sopra”, finanziandole abbondantemente, fino al raggiungimento del brevetto del Moplen per l’industria e del Premio Nobel per il professore del Politecnico di Milano, nonché della cattedra per i suoi allora giovani collaboratori. Oggi il gruppo CNR di Pisa all’interno del quale ho svolto tutta la mia attività scientifica – una “costola”, fra l’altro, proprio della scuola di Natta – sta morendo “di morte naturale”. Quando entrai io nel 1974 eravamo, fra ricercatori, aiutanti e tecnici, almeno una decina di persone. Due anni fa, quando sono andato in pensione per raggiunti limiti d’età, ci ho lasciato due ricercatori ed uno scaldaseggiole, assunto come “amministrativo” grazie ad un’oscena sanatoria di un Mussi alla vigilia delle dimissioni dell’allora governo Prodi, ma che, a mio modesto parere, non è capace di amministrare nemmeno i bilanci di casa sua. Oggi, dopo un altro pensionamento, c’è rimasta solo una ricercatrice, e, ovviamente, lo scaldaseggiole. Quanto alle industrie di oggi, tutti i risultati delle ricerche mie e delle mie collaboratrici sui materiali biocompatibili e bioriassorbibili sono rimaste sulla carta, senza mai arrivare neppure alla sperimentazione clinica, grazie anche al disinteresse delle industrie del settore per i risultati medesimi. E con questa non-cultura dell’innovazione si spera di risollevare l’economia? Ma mi faccia il piacere, avrebbe detto il grande Totò…