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«Il mio iPhone per un sacco di riso». Il disastroso lockdown di Xi’an

Dal 23 dicembre i 13 milioni di abitanti della città sono confinati in casa in Cina. Nessuno può uscire, neanche per comprare da mangiare, il cibo scarseggia e la gente torna al baratto. Tutto per 1.600 contagi

Leone Grotti
05/01/2022 - 6:25
Esteri
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Quartiere chiuso durante un lockdown per il Covid in Cina

«Prima pensavo che le persone che correvano nel panico a fare scorta di cibo fossero una manica di stupidi. Ora ho capito che lo stupido sono io». Non c’è commento su Weibo più adeguato di questo per descrivere quello che sta accadendo a Xi’an, in Cina. Il capoluogo della provincia dello Shaanxi, capitale del paese per nove secoli, famosa per il meraviglioso esercito di terracotta voluto dall’imperatore Qin Shi Huang, è in lockdown dal 23 dicembre e il cibo scarseggia. La situazione è tale che, come testimoniato sui social network, molti residenti sono arrivati a barattare smartphone e tablet per noodles istantanei e baozi.

Il lockdown a Xi’an è peggio che a Wuhan

Le autorità hanno rinchiuso in casa 13 milioni di abitanti dopo l’esplosione del secondo focolaio più grave dopo quello di Wuhan, che diede inizio alla pandemia. I numeri sono risibili se confrontati con il resto del mondo, ma nella Cina della disastrosa strategia “zero Covid” anche un solo contagio è considerato un cataclisma, figuriamoci 1.600. Il confinamento dei cittadini in casa doveva durare una settimana, ma non è ancora terminato.

Il governo aveva anche assicurato agli abitanti che non c’era alcun bisogno di correre nei supermercati per fare scorta di cibo perché ci sarebbero stati viveri per tutti. Inoltre, le autorità avevano inizialmente concesso a un membro della famiglia di uscire di casa per acquistare da mangiare ogni due giorni. Poi, quando l’attesa discesa dei contagi non si è verificata, il Partito comunista si è rimangiato tutto e ha cambiato le carte in tavola: nessuno può mettere il naso fuori di casa, per nessuna ragione.

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Il ritorno delle comuni maoiste

Il sistema per non far morire nessuno di fame è stato collaudato a Wuhan ed è lo stesso che vigeva negli anni Sessanta sotto il maoismo. Anche se non si chiamano più “comuni” e anche se non vengono più informate delle direttive ufficiali dai megafoni, le migliaia di comunità abitative in cui è stata divisa la città funzionano allo stesso modo. Composte da centinaia di persone, ogni comunità è connessa in un gruppo WeChat e riceve informazioni dalle autorità per via telematica. Le diverse comunità sono suddivise in tante unità di quartiere, ognuna delle quali è “gestita” da un responsabile del Partito comunista che provvede a tutto: dal cibo ai farmaci.

Ma a leggere i commenti e a guardare i video pubblicati dai 13 milioni di residenti di Xi’an è evidente che il sistema fa acqua da tutte le parti. «Tutto viene barattato a Xi’an», dichiara un residente, Wang, a Radio Free Asia. «Le persone all’interno della stessa comunità abitativa scambiano oggetti di valore in cambio di viveri, perché non hanno più niente da mangiare». I soldi sono inutili perché non c’è modo di utilizzarli.

«Il mio iPhone per un sacco di riso»

Così, in un filmato si vedono alcune persone che mettono sul piatto sigarette e iPhone in cambio di sacchi di riso. «Io avevo un sacco di riso e un vicino voleva barattarlo con uno smartphone e un tablet. Noi abbiamo molto riso, sei sacchi, ma neanche una verdura».

Durante una conferenza stampa online, settimana scorsa, il governo locale ha dovuto disattivare la possibilità di inviare messaggi perché i cittadini hanno inondato la chat di proteste, insulti e richieste di cibo. Ma non ha ancora risolto il problema dei rifornimenti. Per evitare violazioni della quarantena, sono stati dispiegati per le vie di Xi’an 29 mila poliziotti. Allo stesso tempo, migliaia di funzionari stazionano all’esterno di ogni unità abitativa per impedire a chiunque di entrare o uscire. A detta del governo, in tutto si tratta di 40 mila agenti, ma secondo molti utenti sarebbero almeno il doppio.

Chi viola il lockdown viene picchiato

In un video diventato subito virale sui social media si vedono alcune guardie di sicurezza picchiare brutalmente un giovane che era riuscito a eludere i controlli per uscire a comprare alcuni baozi. «Ero affamato, così sono uscito», si può sentire il giovane gridare alle guardie, mentre queste lo prendono a pugni e calci disperdendo il cibo per terra.

In alcuni quartieri dove i funzionari sono più flessibili ai residenti è permesso di uscire per comprare da mangiare, ma i prezzi sono schizzati alle stelle. Un cittadino si è lamentato ad esempio di aver pagato due cavoli 40 yuan (circa sei euro) e 80 yuan per sei pomodori e dieci peperoni.

Ora nessuno elogia più il “modello cinese”

Per contrastare l’ondata di malcontento i media statali hanno mostrato un lunga teoria di camion portare verdura, frutta fresca e carne di maiale in un quartiere della città. Ma alcuni utenti hanno identificato la zona e rivelato che si trattava di quella abitata dai funzionari del Partito comunista del governo municipale e del Congresso provinciale, scatenando un fiume di indignazione.

Com’è possibile giustificare un simile comportamento da parte della Cina a fronte di un migliaio di casi? Dove sono adesso tutti i turiferari del fantomatico “modello cinese“? Come dice bene un osservatore citato da Rfa, Han Dapeng, «non penso che questo lockdown totale abbia a che fare con la limitazione della pandemia. Mi sembra che serva piuttosto a controllare la popolazione».

Lunedì Pechino ha dichiarato appena 161 nuovi casi positivi in tutto il paese. Ma il lockdown a Xi’an non accenna a finire e potrebbe proseguire fino a quando non scenderanno a zero. Si chiama strategia “zero Covid”. È il modello cinese, lo stesso che il Corriere della Sera elogiava un anno e mezzo fa.

@LeoneGrotti

Foto Ansa

Tags: CinaCovid-19lockdownpartito comunista cineseXi'an
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