Ci risiamo? Tutti i presagi della nuova recessione che avanza

Di Rodolfo Casadei
06 Marzo 2016
Dalla Cina agli Stati Uniti passando per la Grecia, gli indizi di un altro crac globale imminente sono ormai tanti. Le idee per fronteggiarlo nessuna

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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Creare denaro dal nulla e versarlo direttamente nei conti correnti bancari dei privati, per iniziativa della Banca centrale. Non è uno scherzo o una presa per i fondelli, ma la più insolita e spettacolare delle misure di politica monetaria immaginate dagli economisti per scongiurare la recessione e la crisi finanziaria prossime venture. Si tratta della versione estrema del concetto di “helicopter money”, il “denaro lanciato dall’elicottero” teorizzato dal Nobel per l’economia Milton Friedman, cioè la creazione e immissione da parte della Banca centrale di denaro nel sistema che aumenta permanentemente il valore monetario circolante e stimola i consumi. Poiché non si tratta di un atto di politica fiscale del governo ma di politica monetaria da parte dell’ente preposto (anche se è necessaria una grande coordinazione fra le due entità), non si crea debito pubblico se non in rari e specifici casi. E l’effetto inflazionistico non fa paura in un’epoca come la nostra, caratterizzata da un’inflazione troppo bassa rispetto agli obiettivi statutari delle banche centrali.

[pubblicita_articolo]L’idea è uscita dallo scrigno delle stravaganze accademiche e ha invaso le pagine della stampa politica e finanziaria anglosassone: se ne sono fatti sostenitori economisti e finanzieri autorevoli come Martin Wolf, commentatore del Financial Times, Ray Dallio che è il manager del più ricco hedge fund della storia, l’americano Bridgewater, l’ex presidente della Confindustria britannica Jonathan Adair Turner, accademici come Mark Blyth (Brown University) e Simon Wren-Lewis (Oxford), che ne hanno scritto prima su Foreign Affairs e più recentemente sul Guardian.

Se siamo arrivati a questo punto, è perché tutti gli altri strumenti per resuscitare la crescita sono falliti o si sono dimostrati insufficienti, e la paura che ci si trovi alla vigilia di una nuova recessione globale cresce.

La preoccupazione del Fmi
Alla vigilia della riunione dei ministri economici e dei governatori delle banche centrali del G20 venerdì e sabato scorsi a Shanghai, il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha rivolto un appello ai leader che si riunivano per scongiurarli di prendere misure forti per salvare la crescita. «La ripresa si è indebolita ulteriormente nel mezzo di crescenti turbolenze dei mercati finanziari e della caduta dei prezzi dei titoli in borsa», scrive l’Fmi. «La produzione globale ha rallentato inaspettatamente alla fine del 2015, e si è ulteriormente indebolita all’inizio del 2016 mentre le borse crollavano. Il rallentamento dell’ultimo quadrimestre del 2015 sembra riguardare Stati Uniti, Eurozona e Giappone. Fra le economie emergenti, il Pil della Cina ha rallentato secondo le previsioni, mentre i dati sul commercio suggeriscono un indebolimento dell’attività nelle altre economie asiatiche emergenti. Prezzi del petrolio in ribasso e conflitti locali in molti paesi hanno debilitato le prospettive della crescita in Medio Oriente, mentre la recessione in Brasile si è dimostrata più profonda e duratura di quanto previsto». In conseguenza di questo a gennaio le previsioni di crescita globale del Fmi sono state riviste al ribasso di uno 0,2 per cento sia per il 2016 che per il 2017, che quindi si attesterebbero al 3,4 e al 3,6 per cento rispettivamente, «e un ulteriore abbassamento è probabile nella revisione di aprile del nostro World Economic Outlook», scrive sempre l’Fmi.

Negli ultimi quattro anni (2012-2015) la crescita globale è stata sempre di poco superiore al 3 per cento, mentre nei sette anni precedenti (2005-2011) aveva sempre oscillato fra il 4 e il 5,4 per cento (record del 2006 e del 2010), con l’eccezione del 2009 (3,9 per cento). L’anno peggiore è stato proprio il 2015, che ha segnato un modesto +3,1 per cento. Invece l’Eurozona ha continuato la sua lenta rimonta segnando un 1,5 per cento di crescita dopo due anni di crescita negativa (2012 e 2013) e uno leggermente positivo (+0,9 per cento nel 2014). Dati poco più incoraggianti si sono registrati nell’Unione Europea a 28 nello stesso periodo. Le rimonte appaiono troppo lente a fronte delle misure straordinarie prese dai governi e soprattutto dalle banche centrali. Tassi di interesse sui prestiti a breve termine prossimi allo zero o addirittura negativi sono apparsi in Svizzera, Svezia e Danimarca, ma anche la Bce vi ha fatto ricorso; pure gli interessi su certi titoli di debito pubblico a breve termine sono andati sotto zero, precisamente in Germania, Svizzera, Austria, Danimarca e Olanda.

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Contromisure vanificate
Ebbene sì, per detenere titoli di Stato tedeschi dovete pagare voi, non la Germania che si indebita con voi. Questa misura estrema doveva incoraggiare a spendere in consumi o a investire nell’economia reale, ma a vedere gli effetti non si direbbe. Per esempio l’Indice composto delle attività manifatturiere del mese di febbraio appena trascorso per l’Eurozona è il più basso dal gennaio 2015. Ha segnato 52,7 punti, quasi uno meno di tredici mesi prima (53,6). I valori sopra il 50 indicano crescita, ma evidentemente siamo davanti a una crescita molto modesta e per di più in decelerazione. Si è creata una situazione paradossale per cui, scrive Ambrose Evans-Pritchard sul Daily Telegraph, «circa 7 mila miliardi di dollari di debito vengono scambiati a tassi d’interesse negativi. I paesi occidentali possono prendere prestiti quasi senza oneri fino al 2030, eppure si rifiutano di riparare infrastrutture che vanno in rovina e investire nel loro futuro dinamismo per paura di deficit fiscali».

L’altra misura che sembra non essere servita o che comunque ha sortito effetti limitati è il quantitative easing (Qe), che in Europa è stato promosso dalla Bce di Mario Draghi a partire dal marzo dello scorso anno. Si tratta dell’acquisto di prodotti finanziari (inclusi titoli tossici) delle banche commerciali e di altre istituzioni da parte delle banche centrali. L’obiettivo di questa politica monetaria non convenzionale è di mettere in circolazione denaro nell’economia, aumentare le riserve del settore bancario e aumentare un tasso di inflazione troppo basso. Prima della Bce era già stata intrapresa, per gli stessi motivi che alla fine hanno convinto Draghi che a sua volta è riuscito a convincere i sospettosi tedeschi, da Banca del Giappone, Banca d’Inghilterra e Federal Reserve statunitense.

Merrill Lynch informa che fra il 2008 e oggi le banche centrali dei paesi industrializzati hanno effettuato 637 operazioni di taglio del costo del denaro (tassi più bassi) e hanno acquistato titoli e altri prodotti finanziari per 12.300 miliardi di dollari. Attualmente la Bce prevede di acquistare 60 miliardi di euro al mese di titoli fino al marzo 2017. Il suo stato patrimoniale passerà così da 1.900 a 3.300 miliardi di euro nel giro di due anni, con un aumento quasi del 75 per cento. Molto di più ha fatto la Federal Reserve, che per affrontare la tempesta finanziaria innescata dalla crisi dei mutui subprime nel 2008 ha più che quadruplicato (quadruplicato!) il suo balance sheet portandolo da 1.000 a 4.500 miliardi di dollari.

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L’attuale clima d’allarme nasce dalla consapevolezza che, essendo già state messe in campo tutte le armi non ortodosse (tranne l’“helicopter money”) per rilanciare la crescita, se domani la recessione dovesse ripresentarsi non si saprebbe con cosa contrastarla. Ma quanto alti sono i rischi che davvero ci troviamo in prossimità di una recessione globale? E cosa potrebbe scatenarla?

Il pericolo di un’uscita della Grecia dall’euro, e il conseguente collasso della moneta unica, non è più imminente come l’estate scorsa, ma potrebbe tornare a esserlo per il combinato disposto della crisi dei migranti che sta spingendo il paese fuori dall’area Schengen e dell’impossibilità di mantenere fede alle riforme strutturali promesse all’Europa a causa delle proteste popolari, che sono ricominciate in queste settimane. Nel prossimo luglio, quando la Grecia dovrà restituire 3,5 miliardi di euro di prestiti e ci si troverà al culmine della bella stagione che favorisce gli sbarchi di profughi nell’arcipelago ellenico, la tensione e i rischi di una Grexit torneranno a farsi sentire.

Un mare di mutui a rischio
Il secondo fattore di rischio di recessione è rappresentato dalla Cina. Nulla porta a escludere che dal rallentamento della crescita si passi allo scoppio vero e proprio delle due bolle che caratterizzano la crescita cinese: quella borsistica e quella immobiliare. A causa dei controlli sui capitali i cinesi sono costretti a investire tutto in patria. Un effetto perverso di ciò è che si sono create città fantasma prive di abitanti. Ne sono state censite più di 50, ma non è possibile dire a quanti abitanti mancanti corrispondano. Un dato disponibile e molto eloquente degli eccessi edilizi della Cina è però quello secondo cui fra il 2011 e il 2013 i cinesi hanno prodotto più cemento di tutto quello usato negli Stati Uniti nel corso del XX secolo. Un altro effetto perverso è la bolla finanziaria che nel 2015 ha portato la Cina a diventare il paese col più alto rapporto fra il prezzo delle azioni e l’utile atteso per ogni azione. Il settore tecnologico è arrivato a segnare prezzi per azione 220 volte superiori agli utili: si ricordi che alla vigilia del collasso della bolla delle dot-com, che avvenne fra il 2000 e il 2001, l’indice Nasdaq dei titoli tecnologici americani indicava un valore delle azioni 150 volte superiore ai profitti.

Il terzo fattore potenzialmente destabilizzante è rappresentato dai prestiti studenteschi negli Stati Uniti: 40 milioni di laureati americani stanno cercando di ripagare i debiti che hanno contratto verso lo Stato per poter frequentare l’università. Il totale del loro debito ammonta all’astronomica cifra di 1.200 miliardi di dollari, poco meno del Pil della Spagna. Un quarto di questi laureati non sta pagando o ha smesso di pagare il debito. Gli altri tre quarti, quelli che stanno restituendo il credito, fanno grossi sacrifici che li tengono lontani dal mercato dei consumi (auto, case di alta gamma, eccetera). La questione è diventata talmente seria da entrare nei dibattiti dei candidati democratici e repubblicani alle elezioni presidenziali. Qualcuno teme che i default del debito studentesco inneschino una crisi simile a quella dei mutui subprime.

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Verso la resa dei conti
Secondo l’analista finanziario americano Adam Hayes i segnali di una recessione imminente per l’economia statunitense ci sono tutti: «Le vendite al dettaglio sono diminuite più che in qualunque altro periodo precedente l’ultima recessione, e lo stesso vale per le vendite all’ingrosso. Gli ordini nel settore manifatturiero nel dicembre 2015 hanno avuto la flessione più forte dell’anno. La crescita del Pil americano sta rallentando, così come quella delle esportazioni; i profitti industriali stanno diminuendo». Non la pensa come lui Jack Lew, il ministro americano del Tesoro, che alla vigilia del meeting di Shanghai così ha risposto a chi gli chiedeva dell’appello del Fmi: «Gli ultimi mesi hanno chiarito che la debolezza della domanda è globale, non è una situazione dove tutti guardano all’America per avere la crescita. Questo non è un momento di crisi. Non aspettatevi una risposta di emergenza in un contesto che non è di crisi».

Secondo Ambrose Evans-Pritchard la recessione è semplicemente rinviata di un anno: «I tremori di quest’anno sono l’antipasto di quello che ci aspetta quando l’attuale ciclo globale si esaurirà – probabilmente nel 2017 – e ci troveremo davanti alla resa dei conti di tutto il Qe operato dalle banche centrali e della fine della bolla cinese con livelli di indebitamento mondiale superiori del 36 per cento a quelli che esistevano prima del fallimento di Lehman Brothers. Storicamente ci vogliono dai 300 ai 500 punti base di taglio dei tassi di interesse per arrestare la caduta quando si affaccia una recessione globale. E noi non li abbiamo». Eh già, coi tassi di interesse prossimi allo zero o addirittura negativi…

@RodolfoCasadei

Foto Ansa

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2 commenti

  1. Osvo

    @Luigi: magari cominciare a pensare di più agli italiani che agli africani.
    Nel 2015 Renzi ha speso 3,3 miliardi di euro per le operazioni di accoglienza migranti (escludendo le spese successive, come le spese sanitarie, ad esempio), pari al triplo rispetto al biennio precedente. E per il 2016 le previsioni sono oltre i 4 miliardi (fonte: Sole 24ore).
    Un genitore prima di sfamare i figli degli altri pensa a sfamare i propri, no?

  2. Luigi trevisiol

    Condivido. Ma allora cosa possiamo fare?

I commenti sono chiusi.