Attorno a Charlie Gard si è radunata una intera società, con la sua miopia, la sua confusione, il suo buon cuore, la sua generosità lasciata allo sbando. E soprattutto con quelle domande sul valore dell’esistenza portate come fieno tra le braccia verso il suo lettino. Nei mesi persi in contese giudiziali prima che venisse presa in considerazione la richiesta dei suoi genitori («Troppo si è voluto discutere in senso giuridico quando veramente il fatto era umano. Ed era un diritto dei genitori fare di tutto per salvare la vita del loro piccolo», ha tuonato il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente Cei, aggiungendo che ora Charlie non può essere privato di «tutte le cose che si fanno normalmente per curare un malato devono essere fatte anche nella sua condizione terminale»), un bambino di 11 mesi ha costretto centinaia di migliaia di persone a fare i conti con la propria disumana incapacità. Certo, non solo i potenti, papa Francesco, Trump, i medici e i tribunali, hanno preso parte al pezzetto di storia di Charlie, in molti si sono spesi anima, cuore, e inchiostro sulla vicenda.
Come Michele Serra, che per stigmatizzare i cartelli “salvate Charlie” dei «sobillatori», «branditi come alabarde», che spostano «su un piano “magico”, e irragionevole, la nostra comune paura di non farcela», guarda Charlie e ci vede un «povero bambino ridotto a involto intubato», «come se ci fosse davvero la possibilità di scegliere, in casi come quelli, se essere per la vita o per la morte». E uno si domanda come sia possibile essere arrivati a questo punto, a tenere dibattiti sull’aut aut che ci vede “essere per la morte di un bambino”, ciò in italiano è chiamato infanticidio.
Proprio in Inghilterra alla fine di giugno la British Medical Association ha discusso la rimozione di ogni limite legale all’aborto (già possibile fino a 24 settimane) depenalizzandolo «fino a che il feto possa sopravvivere autonomamente». L’incapacità di non riconoscere una persona nel bimbo non nato sembra avere raggiunto così l’inizio e la fine dell’esistenza, come dimostra il consenso ovunque crescente e partecipato sull’eutanasia e la stessa discussione in atto al nostro Senato sulle dat, il cui testo pone i minori e gli incapaci nell’arbitrio delle strutture sanitarie e dei giudici. L’inizio e la fine, proprio dove nulla ci distrae e ci allontana dalla realtà, dall’evidenza del mistero della vita. Può diventare questa una insopportabile zavorra tanto da volercene allontanare, anche solo giudicando un caso in tribunale, in un ospedale o leggendo un quotidiano, a causa della sofferenza che porta con sé?
I genitori di Charlie, così come i tanti genitori e i tanti medici che hanno portato la loro testimonianza in queste settimane, non hanno scantonato la sofferenza, accettandola come vita e come positiva anche quando le circostanze sembravano suggerire tutto il contrario. Perché scantonare non è del cuore umano. I soldi donati per custodire la vita di Charlie da quelle persone che disgustano Michele Serra (oltre 1,3 milioni di sterline, provenienti in gran parte da donatori anonimi, 5, 10, 15 euro alla volta), raccolti grazie al fracasso di coloro che sono impresentabili agli occhi educati di chi guarda la vita dall’Amaca di Repubblica, verranno versati fino all’ultimo centesimo in una Fondazione per sostenere la ricerca sulle malattie mitocondriali, garantire il trattamento «più precoce possibile» e custodire, e forse salvare, la vita di altri bambini come lui.
Ecco che allora, nell’atto di Chris e Connie Gard, che davanti agli ultimi esami hanno deciso di non insistere ulteriormente in un tentativo terapeutico considerandolo irragionevole e hanno chiesto al giudice di poter portare il bimbo a morire in casa, si ritrova lo stesso ragionevole amore che li aveva portati a richiedere una possibilità per il figlio che se attuata per tempo, a detta degli stessi esperti, non sarebbe stata affatto impraticabile. «Un gesto – ha scritto Roberto Colombo in un lungo editoriale su Avvenire – che ha ultimamente sottratto la decisione sulla vita di Charlie a un luogo improprio, quello di un tribunale, e l’ha riconsegnata all’ambito che le è connaturale, quello dell’amore dei suoi genitori».
Quei genitori a cui ostinate e sterili diatribe sulla qualità e la dignità della vita di un bambino malato in aula (leggere le sentenze nelle quali fin dall’inizio è esplicitata e diventa giurisprudenziale la posizione dei medici del Gosh sul disvalore umano della vita di Charlie, le cui scarse aspettative di vita rendono la morte il suo “migliore interesse”) hanno fatto perdere tempo decisivo per tentare la terapia sperimentale di bypass metabolico non appena completata la diagnosi. Quei genitori che hanno sfidato i dogmi culturali e l’imposizione della forza pubblica con l’amore dalla grana più resistente e pugnace, ma non solo.
La loro vicenda avrebbe potuto restare solo un affare privato, se entrambi non avessero permesso a un “mondo piccolo” di parlarne: un mondo che generalmente non fa opinione ed è considerato quantitativamente e intellettualmente minoritario, ma che sulla vita non scantona mai, ha levato i cartelli, usato gli hashtag (che vanno tanto bene per salvare gli agnelli o gli orsi), illuminato i comuni di blu, disgustato Repubblica. Facendo un gran fracasso, insomma, che sì, come alabarda che percuote le coscienze, ha raccontato al “mondo grande” la storia di Charlie. E Charlie ci ha costretto a prendere posizione laddove si presume che tutto debba essere delegato a leggi e ordinamenti.
«Nel pozzo la luna era un bambino», scriveva Giovanni Testori sul Sabato dopo la morte di Alfredino Rampi nel giugno del 1981.
«E non è senza senso che, a un mese dal “no” detto alla vita attraverso alla riapprovazione dell’aborto legalizzato, gli italiani siano stati indotti o costretti a meditare sul valore della vita da un bambino».
Casi diversi ma uno stesso assalto di domande che ieri come oggi ci potevamo illudere d’aver addormentato o strozzato per sempre, dopo aver riempito la «casualità della nascita», da un accumulo così rapido di oggetti, produzioni, e presunte giustizie sociali. Ecco che attorno al pozzo di Vermicino si erano mossi uomini e persone allo sbando, come feriti e ammutoliti da quella disumana casualità.
«Di fronte all’impeto di quei gesti, di quel “volontariato” della vita e per la vita, chi di noi non ha compreso che ciò che poteva accadere solo in quanto la “casualità” della nascita veniva, di colpo nuovamente riferita a un disegno, veniva vinta da una precisissima ed esistentissima ragione, da un precisissimo ed esistentissimo significato, potrà aver ricevuto emozioni, potrà aver versato lagrime, potrà persino aver pregato, ma poco, pensiamo avrà capito dell’estrema lotta tra valore e insignificanza, che andava consumandosi là, attorno al pozzo di Vermicino».
Che a indurci e a costringerci a riaprire quelle domande sia stato ieri come oggi un bambino piccolissimo, tutto questo rende più estrema la necessità di non scantonare.
«Nessuna sproporzione, nel disegno di Dio, è più proporzionata di questa, se è vero che che Cristo ha detto: “Lasciate che i bambini vengano a me”».
Ecco perché è a partire dai bambini, che ci ricordano di avere iscritto in ognuno di noi ciascun principio e ciascuna fine, laddove si battaglia per il miracolo dell’esistenza, che una società demenzialmente e indifferentemente adulta deve essere sconquassata, anche con fragore, perché decida se vuole essere non più luogo di morte ma luogo di vita.