C’è una guerra “sopra” e una “sotto” Gaza

Di Giancarlo Giojelli
08 Novembre 2023
Un labirinto di tunnel corre sotto le case, le scuole, gli ospedali. Gli israeliani non cercano nemmeno di entrarci, bombardano e basta. Qui i miliziani di Hamas trasportano armi e si nascondono
Esercito israeliano presso la Striscia di Gaza, 2 novembre 2023 (Ansa)
Esercito israeliano presso la Striscia di Gaza, 2 novembre 2023 (Ansa)

«Non siamo in guerra con i palestinesi, ma con Hamas», fu il primo commento dell’ambasciatore israeliano a Roma, Alon Bar, all’indomani dell’attacco dei miliziani di Hamas a Israele, un mese fa. Parole che trovano scarso spazio nei commenti e nelle cronache di queste quattro settimane di guerra. Prevale la visione di un nuovo capitolo di una guerra che dura da almeno 75 anni, la guerra tra Israele e arabi palestinesi.

Bar diceva: «Hamas non può essere considerato un partner per nessun tipo di cessate il fuoco. I palestinesi continueranno ad essere nostri vicini di casa, ma finché Hamas avrà le capacità per continuare a compiere assassinii e atti terroristici ai danni degli israeliani sarà impossibile trovare un modo per continuare a vivere con loro».

Un nemico che non teme di morire

Una visione che si specchia in quanto ci dice un giovane ufficiale israeliano: «Questa è una battaglia tra un paese libero, democratico, tecnologicamente all’avanguardia, che vuole estirpare una minaccia terroristica che fa leva sul radicalismo e sul fanatismo, sparso e cresciuto in tutto il mondo». Il militare non può fare il suo nome, ma vale la pena di ascoltarlo, perché lui a Gaza ci è entrato con i primi commando, ha visto quella che erroneamente definiamo prima linea del fuoco, perché a Gaza City non c’è una prima linea ma una una linea parallela sotterranea (la “metro” di Gaza, la chiamano ironicamente e tragicamente perché trasporta un carico di missili ed esplosivi e dà rifugio ad unità combattenti ben addestrate. Quelle unità che ripetono «amiamo la morte più di quanto voi amate la vita»: e come si combatte un nemico che non teme di morire?).

Quell’intrico di tunnel corre sotto le case, le scuole, gli ospedali. Le unità scelte israeliane non cercano nemmeno di entrarci: quando individuano l’ingresso di un tunnel chiamano gli artificieri e l’aviazione. A finire il lavoro ci pensano le bombe: non sapremo mai quanti sono effettivamente i miliziani morti “sotto” i bombardamenti. Sappiamo quanti civili muoiono “sopra”, perché gli edifici crollano per le esplosioni mentre sprofondano nelle gallerie sopra le quali sono stati costruiti. La guerra qui è fatta anche di fake news, filmati, ricostruzioni grafiche ingannevoli. Ogni bomba che ha un obiettivo militare deve raggiungerlo passando vicino, o attraverso, un edificio civile. Ospedali compresi. La guerra non conosce queste distinzioni. Le bombe intelligenti non si smaterializzano per ricomparire sotto terra.

Esercito israeliano presso la Striscia di Gaza, 2 novembre 2023 (Ansa)
Esercito israeliano presso la Striscia di Gaza, 2 novembre 2023 (Ansa)

Aspettando l’Iran

Un mese e un giorno sono passati: le cifre si aggiornano. Millequattrocento i morti nell’attacco terroristico di Hamas, diecimila i morti a Gaza per i bombardamenti, 240 gli ostaggi. Una strategia, quella di Israele, che si sta delineando con una certa chiarezza: avanzare casa per casa, individuare le basi di Hamas, eliminare le strutture della milizia, cercare di recuperare quanti più ostaggi possibile, far evacuare da Gaza City i civili verso il Sud della striscia, verso l’Egitto (che però rifiuta di trasformare il Sinai in un gigantesco campo profughi), mentre Hamas ostacola la fuga dei civili, che sono e restano scudi umani da frapporre all’avanzata dei tank israeliani.

Israele sembra avere come unico obiettivo la sicurezza. L’eliminazione di Hamas e della minaccia terrorista: i palestinesi non sono un nostro problema, dicono i leader, sono un problema del mondo, dell’Onu, delle grandi potenze, della Lega Araba.

Israele non può concentrarsi solo su Gaza: ci sono altri fronti. A Nord Hezbollah per ora non minaccia una guerra aperta ma si “limita” al lancio di razzi. Sabato prossimo è atteso un nuovo discorso del leader della milizia-partito sciita legata all’Iran: Hassan Nasrallah parlerà ancora una volta a tutto il Medio Oriente. Ribadirà che quello che accade è una vicenda condotta solo dai palestinesi, che non coinvolge militarmente il Libano e la potenza militare di Hezbollah? Accentuerà i toni antiisraeliani chiamando alla jihad i fondamentalisti islamici? I suoi discorsi hanno un’eco che risuona in tutta la regione e tutti sanno bene che dietro Nasrallah c’è l’Iran, che fino ad ora ha evitato ogni coinvolgimento diretto.

Il “dopo” di Gaza

Il tempo scandisce una imprevedibile evoluzione, le diplomazie internazionali cercando di arginare il conflitto nell’area ristretta di Gaza, di limitare (con quali tristi risultati lo vediamo) la morte e la sofferenza della popolazione. Il dopo è la grande incognita: sembra impensabile per Israele che Hamas possa sopravvivere. Nella striscia si cerca il numero due della milizia. Yahya Sinwar: la sua è una storia per molti versi emblematica. Nato nel 1962 nel campo profughi a Gaza, arrestato più volte per «attività sovversive», condannato a quattro ergastoli, per omicidio e rapimento, ha trascorso 23 anni in carcere dove ha imparato l’ebraico. Nel 2011 è stato liberato con altri mille prigionieri palestinesi in cambio del soldato israeliano, Gilad Shalit, rapito dai miliziani di Hamas nel 2006 in un raid oltre confine.

Nel 2017, è diventato leader sul campo di Hamas, prendendo il posto operativo di Ismail Haniyeh, che attualmente vive in Qatar. Sinwar ha 13 figli, è laureato in Lingua e letteratura araba. È stato il braccio destro del fondatore del movimento Ahmed Yassin, ucciso a Gaza nel 2004 dai missili sparati da due elicotteri israeliani. Yassin, paraplegico e semicieco, era considerato il responsabile di attentati terroristici che hanno causato la morte di centinaia di israeliani ed ebrei in diversi paesi del mondo. Aveva fondato nel 1987 Hamas, ala palestinese dei Fratelli musulmani. Il motto di Yassin, che sembra essere stato fatto proprio da Sinwat, era «abbiamo scelto questa strada: finirà con il martirio o la vittoria». L’opposto di ogni road map di pace. E per Yassin, e i suoi fedeli e seguaci, morte e vittoria coincido, nella loro interpretazione della jihad, la guerra santa.

Israele ora sembra concentrato su questa guerra. Ma tutti sanno che ci sarà un “dopo” anche qui. Le famiglie degli ostaggi manifestano, le famiglie dei riservisti chiamati alle armi vivono nell’angoscia, gli abitanti del Nord e dei kibbutzim del Sud evacuati sotto la minaccia dei missili di Hamas attendono un futuro incerto: il premier Benjamin Netanyahu sa che prima o poi gli verrà presentato il conto di una guerra scoppiata senza che il suo governo se ne rendesse conto, e ha ancora in corso un processo per malversazione e la rabbia di quasi metà della popolazione israeliana per la riforma giudiziaria voluta dal suo esecutivo è solo congelata dalla guerra. Nulla sarà più come prima.

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