
Carrón al sinodo: All’attesa del cuore dell’uomo può rispondere solo un avvenimento
Riportiamo di seguito il discorso di don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, alla nona Congregazione Generale del Sinodo dei Vescovi (13 ottobre 2012).
Beatissimo Padre, Venerabili Padri, Fratelli e sorelle:
Il Sinodo sulla Nuova Evangelizzazione e l’Anno della fede traggono origine dalla stessa costatazione: non possiamo continuare a «pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune». In effetti, «questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato» (Porta fidei, 2). Se la fede non si può continuare a dare per scontata, la prima urgenza è come ridestare negli uomini del nostro tempo l’interesse per essa e per il cristianesimo. E il luogo privilegiato dove questo può accadere è la vita quotidiana, dove come cristiani entriamo in rapporto con i nostri fratelli uomini.
Leggendo l’Instrumentum Laboris, che contiene tanti spunti preziosi per il nostro lavoro, sono rimasto colpito da questa osservazione: «Desta preoccupazione in molte risposte [ai Lineamenta] la scarsezza di primo annuncio nella vita quotidiana, che si svolge nel quartiere, dentro il mondo del lavoro». Questa valutazione, che emerge in tante risposte, mi sembra metta il dito nella piaga, indicando quale sia la sfida che ci troviamo ad affrontare.
Malgrado tutti i tentativi fatti negli ultimi decenni per migliorare gli strumenti della trasmissione della fede, la costatazione è semplice: tutto lo sforzo fatto fino adesso fatica a generare una novità di vita tale da destare nei vicini e nei colleghi la curiosità per quello che i battezzati vivono nella vita quotidiana (quartiere, luogo di lavoro). Questo dice molto della difficoltà che oggi ci troviamo ad affrontare come Chiesa: come superare quella frattura tra la fede e la vita che rende più difficile alla fede di essere incontrabile in modo ragionevole, e dunque attraente nella vita quotidiana. Se non riusciamo ad affrontare con chiarezza la questione, continueremo a fare ingenti sforzi senza riuscire a dare una risposta adeguata alla radice del problema.
Qui risiede, a mio avviso, il nesso profondo tra l’Anno della fede e la Nuova Evangelizzazione. Infatti, senza «riscoprire e riaccogliere il dono prezioso che è la fede», che renda ogni battezzato una «nuova creatura» capace di mostrare la bellezza di una esistenza vissuta nella fede, la nuova evangelizzazione rischia di essere ridotta a una questione di esperti e una discussione sugli strumenti, e di non avvenire come esperienza personale e ecclesiale in grado di ridestare negli uomini l’interesse per la fede.
Per suscitare questo interesse abbiamo un alleato dentro l’uomo di qualsiasi cultura e condizione. Noi sappiamo che il cuore dell’uomo è fatto per l’infinito. E questo desiderio, anche se sepolto sotto mille distrazioni ed errori, è incancellabile. Rimane in lui l’attesa di un compimento. Perché nessun «falso infinito» − per usare un’espressione di Benedetto XVI −, con cui tante volte identifica il suo compimento, riesce a soddisfarlo. «Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde se stesso? Cosa potrà dare l’uomo in cambio di sé?» (Mt 16,26).
A questa attesa, però, non può semplicemente rispondere una dottrina, un insieme di regole, una organizzazione, ma piuttosto l’avvenimento di una umanità diversa. Come disse don Giussani durante il Sinodo sui laici del 1987, «ciò che manca non è tanto la ripetizione verbale o culturale dell’annuncio. L’uomo di oggi attende forse inconsapevolmente l’esperienza dell’incontro con persone per le quali il fatto di Cristo è realtà così presente che la vita loro è cambiata. È un impatto umano che può scuotere l’uomo di oggi: un avvenimento che sia eco dell’avvenimento iniziale, quando Gesù alzò gli occhi e disse: “Zaccheo, scendi subito, vengo a casa tua”». Allora come oggi, solo una creatura nuova, un testimone di una vita cambiata può suscitare di nuovo la curiosità per il cristianesimo: vedere realizzata quella pienezza che uno desidera raggiungere, ma non sa come. Uomini nuovi che creano luoghi dove ciascuno possa essere invitato a fare la verifica che fecero i primi due sulla riva del Giordano: «Vieni e vedi», perché «una fede che non possa essere reperta e trovata nell’esperienza presente, confermata da essa, utile a rispondere alle sue esigenze, non sarà una fede in grado di resistere in un mondo dove tutto, tutto, dice l’opposto» (L. Giussani, Il rischio educativo).
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7 commenti
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Non capisco perchè dovrebbero essere interessanti gli uomini. Ma non è Gesù Cristo che dobbiamo annunciare? La chiesa deve predicare se stessa o Gesù Cristo?
Non capisco a quale passaggio lei (o magari se posso permettermi tu) si riferisca: potrebbe essere piu preciso?
La citazione di Giussani è chiarissima. Per l’evangelizzazione ci vuole “un’umanità nuova”.
Io dico che ci vuole l’annuncio di Gesù morto e risorto, infinitamente più credibile di qualsiasi “uomo nuovo che crea luoghi nuovi”.
Grazie ora mi e’ tutto piu chiaro. Provo a risponderle: credo “l’umanità nuova” cui si riferisce Giussani sia generata nell’individuo proprio dall’incontro con il Cristo morto e risorto. Se l’annuncio cristiano si limita ad essere un annuncio, al quale non segue un cambiamento, un rinnovamento, una maggiore felicita’ della persona, tale annuncio non risulta molto “appetitoso”. Ripensando alla mia storia mi ricordo come l’incontro con un prete missionario in Paraguay abbia ridestato una fede che poco a poco si stava assopendo in me.
A Gabriele.
Ne parla Cristo
Come non capisci? Il messaggio che dici si vede attraverso il cuore degli uomini e la felicità che vivono. Se non si cala nella realtà della felicità degli uomini, tangibile, esempio, come fa un messaggio di per sè ad essere forte?
Non dice di predicare a parole, dice di predicare ‘con l’esempio’, l’uomo felice e pieno deve essere l’esempio. la cosa che attrae. Attrae di piu’ la felicità nell’uomo, vista, che la felicità predicata, ci hai mai fatto caso? È lì che troviamo Gesù.. Un abbraccio.