Cari ambientalisti fan del figlio unico, ricordate com’è finita in Cina?
I lettori di Tempi sanno già che a Vancouver, Canada, la campagna “One Planet One Child” promossa dalla Ong statunitense World Population Balance ha conosciuto un increscioso incidente di percorso: avendo scelto di pubblicizzare il suo messaggio secondo cui «il dono più amorevole che puoi fare al tuo primo figlio è di non averne un altro» con la gigantografia di un neonato afroamericano, è incorsa in accuse di razzismo. I promotori della campagna si sono affrettati a chiedere scusa e ad assicurare che non avevano alcuna intenzione di perorare una diminuzione del numero dei neri a vantaggio di altri gruppi razziali ed etnici, ma soltanto di diffondere il messaggio che i figli unici di qualunque colore sono la scelta migliore che una famiglia può fare per garantire un futuro felice al bambino in questione: anche se non avrà fratelli o sorelle avrà però a disposizione maggiori risorse ambientali.
Hanno però dimostrato di non credere veramente che le loro spiegazioni sarebbero state accettate, perché il manifesto in questione, dopo essere scomparso dalle strade e dalle vie di Vancouver, è sparito anche dalla pagina del sito internet di World Population Balance (Wpb) che ospita i numerosi “transit ads” della campagna, cioè le pubblicità stradali. Infatti nel settembre scorso la campagna pubblicitaria, con grandi cartelloni stradali recanti la scritta “We chose one!” abbinata alla foto di coppie di genitori con un solo figlio, ha fatto la sua apparizione non solo a Vancouver, ma lungo le strade del Colorado e del Minnesota. L’obiettivo della campagna è convincere le coppie di tutto il mondo, cominciando da quelle dei paesi occidentali, a non avere più di un figlio per combattere la sovrappopolazione, che secondo gli attivisti è la causa principale del degrado dell’ambiente e dell’esaurimento delle risorse.
L’UTOPIA DI SALVARE IL PIANETA DAI BAMBINI
Secondo una cervellotica proiezione di Wpt, se da oggi in avanti per 100 anni di seguito la media dei figli per donna diminuisse e restasse stabile a 1, la popolazione mondiale scenderebbe da 7,8 a 3 miliardi di persone, e tutti i problemi di inquinamento ambientale ed esaurimento delle risorse sarebbero risolti. A chi obietta che a creare pressioni sull’ambiente non è tanto il numero degli esseri umani, quanto l’eccesso di consumi, la Ong ribatte che «conseguire la sostenibilità attraverso la riduzione dei consumi comporterebbe che dovremmo vivere tutti in povertà. Risolvere il problema della sovrappopolazione in tutto il mondo migliorerebbe le vite ovunque. Molte famiglie nel mondo hanno scelto famiglie sempre più piccole negli ultimi sessant’anni, mentre molto poche hanno scelto di abbassare il loro standard di vita. Perché non incoraggiare ciò che è già riuscito – la riduzione volontaria dei tassi di fertilità – piuttosto che riporre tutte le nostre speranze in qualcosa che nessuna società ha mai scelto di fare?».
L’ESPERIMENTO (CON 336 MILIONI DI ABORTI) IN CINA
Quello che Wpb dimentica di dire, è che l’esperimento sociale del figlio unico è già stato condotto, per più di trent’anni, in un grande paese del mondo, e che i costi umani ed economici di tale politica sono stati così negativi da convincere il governo a cambiare politica. Stiamo parlando della Cina, che nonostante avesse conosciuto una forte diminuzione dei tassi di fertilità nel corso degli anni Settanta senza bisogno di politiche draconiane, a partire dai primi anni Ottanta decise di imporre con le cattive la politica del figlio unico alla sua popolazione. Per raggiungere gli obiettivi fissati, in Cina sono stati procurati 336 milioni di aborti in un trentennio, molti dei quali forzati; sono state sterilizzate 196 milioni di donne ed altre 403 milioni hanno avuto impiantata una spirale: anche in questo caso spesso si è ricorsi alla forza. Molti secondi figli, soprattutto se femmine, sono stati soppressi o lasciati morire subito dopo la nascita per non subire le sanzioni legali, che andavano dall’imprigionamento dei genitori a salatissime multe. Si calcola che per un lungo periodo l’ente pubblico abbia incassato l’equivalente di 3 miliardi di dollari all’anno dalle contravvenzioni pagate dalle famiglie che avevano un secondo o terzo figlio, e che buona parte di questa cifra sia finita nelle tasche dei rappresentanti delle autorità locali, i più motivati fra tutti i pubblici ufficiali a vedere applicate le leggi sul numero dei figli.
LA GENERAZIONE DEL PICCOLO IMPERATORE
Sulla personalità e sui comportamenti della generazione dei figli unici cinesi, definita “la generazione del Piccolo Imperatore”, sono stati condotti studi sociologici e scritti libri da autori cinesi come Mei Fong, Wu Zhihong, Yi Zhang, Helen Gao. Crescendo questi bambini hanno dimostrato di essere meno generosi, meno capaci di fiducia e meno onesti dei loro predecessori nati negli anni Settanta, più paranoici, pessimisti e timorosi di assumersi responsabilità. La giornalista Helen Gao ha elencato sul New York Times i loro ricorrenti comportamenti problematici, come fare scenate al partner in pubblico, gettare rifiuti spensieratamente per la strada, l’essere soffocanti nelle relazioni affettive e tutti i comportamenti che rivelano l’aspettativa di essere serviti da altri.
Alcuni sociologi spiegano le scarse performance dei cinesi negli sport di squadra con la teoria della “palla grande, palla piccola”: gli atleti cinesi eccellono soprattutto negli sport individuali come il ping pong e il badminton, che richiedono alti livelli di precisione e ripetitività, ma afflitti dall’egoismo e dalla paranoia che dominano la generazione dei figli unici, non riescono a coinvolgersi nello spirito degli sport di squadra come calcio e basket, e così normalmente hanno risultati scadenti negli sport della “palla grande”.
40 MILIONI DI MASCHI SENZA COMPAGNA E 300 MILIONI DI ANZIANI
Un altro vistoso fenomeno sociale conseguenza delle politiche del figlio unico in Cina è il soprannumero di maschi. La tradizionale preferenza per il figlio maschio ha prodotto un vasto fenomeno di aborto selettivo delle femmine (problema che esiste anche in India) quando dalle ecografie risultava che questo era il sesso del concepito. Oggi in alcune province cinesi il numero dei maschi supera del 38 per cento quello delle femmine, e nel complesso dell’intera Cina nascono 119 ragazzi ogni 100 ragazze. Di conseguenza il paese oggi si trova con un surplus di 40 milioni di maschi in età da matrimonio (più di tutta la popolazione della Polonia o del Canada) che non può trovare una compagna in Cina. Il problema viene risolto svuotando i paesi vicini dalle donne appartenenti a minoranze etniche e a famiglie poverissime. Vengono attirate in Cina col miraggio di un buon impiego o puramente e semplicemente “vendute” dalle loro famiglie. Provengono in maggioranza da Vietnam, Cambogia, Myanmar, Pakistan e Corea del Nord.
Infine ci sono le conseguenze economiche della politica del figlio unico: nei prossimi trent’anni la Cina perderà 200 milioni di lavoratori che avrebbe avuto senza le politiche di controllo delle nascite e accumulerà 300 milioni di anziani. Il miracolo economico cinese finirà e la Cina dovrà affrontare il problema di una popolazione anziana che difficilmente può essere sostenuta dalle generazioni che lavorano: a metà di questo secolo il 39 per cento dei cinesi avrà più di 60 anni.
Di fronte a questi problemi il governo comunista ha reagito sostituendo alla politica del figlio unico quella degli almeno due figli per famiglia, ma finora con scarso successo: i cinesi hanno fatto proprie le tendenze dei paesi ricchi in materia di fertilità, che sommate all’eredità delle violente politiche antinataliste fanno sì che la fertilità delle donne cinesi continui ad essere molto bassa, cioè un po’ più di 1,6 figli per donna. Il 2019 è stato l’anno col minor numero di nascite ogni 1.000 abitanti da quando si tengono statistiche, appena 10,5. Il baby-boom che il governo si aspettava come conseguenza della politica inaugurata cinque anni fa non ha avuto luogo, e chissà se mai ci sarà.
NOBEL E GENTE DI CHIESA CONTRO LA SOVRAPPOPOLAZIONE
A questo punto vien voglia di sapere chi sono i dirigenti e i garanti di World Population Balance, questo ente no profit fondato nel 1992 per lottare contro la cosiddetta sovrappopolazione del pianeta che propaganda il figlio unico senza nulla dire di ciò che tale scelta ha comportato in Cina. I membri del Consiglio di amministrazione sono più o meno sconosciuti naturalisti e attivisti ambientali che nella vita fanno i fotografi o le infermiere o sono stati impiegati di banca. Più interessanti i nomi del Comitato consultivo attuale e di quelli precedenti. Si va dal premio Nobel per la pace Norman Borlaug, padre della Rivoluzione verde che ha incrementato i raccolti in tutto il mondo, all’attrice Alexandra Paul, famosa per l’interpretazione di una delle protagoniste di Baywatch, passando per avvocati, ginecologi e docenti universitari. Ma l’aspetto più curioso è la presenza di uomini e donne di chiesa che si sono offerti come consulenti di un’organizzazione dedita esclusivamente alla riduzione delle nascite nel mondo. Fanno parte dell’elenco Lowell Erdahl, vescovo emerito della Chiesa evangelica luterana d’America, Thomas Hale, medico missionario in Nepal, suor Marlys Jax della comunità cattolica Assisi Heights, il defunto padre Tim Power di Pax Christi, Arthur Rouner ministro anziano emerito della Colonial Church di Edina affiliata alla United Church of Christ e suor Mary Zirbes delle sorelle francescane di Little Falls, attiva in materie di giustizia sociale. Così almeno si dice sul sito della Wpb.
Foto Ansa
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