«Calate le grate sull’acciaio, calano anche sulla popolazione». Il caso ThyssenKrupp

Di Pietro Salvatori
22 Dicembre 2012
Terni, storia di una trattativa da 2,9 miliardi di euro e di un processo che potrebbe riavviccinare gli investitori. E salvare 10 mila famiglie

Uno dei più grandi poli siderurgici italiani non poteva che collocarsi in via Bruno Brin. Ministro degli Esteri e della Marina nei lontani anni dei governi di Francesco Crispi, l’ammiraglio e ingegnere passato alla storia, quella polverosa delle biblioteche specializzate, per aver dato impulso nella seconda metà del XIX secolo alle industrie italiane dell’acciaio. Nella centralissima via Santi Apostoli, a Roma, la targa apposta sull’abitazione che lo vide spegnersi nel 1898 ricorda che «pensò e volle l’Italia munita di cantieri, di officine, di forze pare ai ferrei suoi fati». A Terni si sono limitati a una via. Quella che dal 1884, proprio sotto impulso di Brin, ospita una delle principali aziende del settore.

Una striscia d’asfalto collega la capitale al piccolo capoluogo umbro. Lunga poco più di un’ora e incorniciata da una liquida nebbia mattutina, dalla campagna umbro-laziale e da una disorganizzata teoria di capannoni. Già, perché il panorama dell’Umbria meridionale alterna i suoi mitologici borghi medievali a una fervente attività del settore secondario e terziario. Qui la minuscola Narni, riempiendosi gli occhi della quale Clive Staples Lewis dipinse il suo fatato mondo di Narnia. Qui l’Acciai speciali Terni, una delle più floride industrie del settore.

Mentre un oscuro protocollo del ministero per i Beni e le attività culturali garantirà vita imperitura agli splendori della vicina Narnia, le acciaierie ternane rischiano, da qui a qualche mese, di chiudere bottega. E «calate le saracinesche sull’acciaio, calano anche su Terni», commenta tra il preoccupato e il rassegnato un dirigente del Comune. Un’esagerazione? Forse. Ma, per stessa ammissione degli ironici ternani, il capoluogo è «l’unica città brutta della nostra regione». Lontana dal turismo, lontana dalle principali arterie autostradali, Terni rischia una lenta morte per asfissia. Il suo ossigeno si chiama Acciai speciali Terni. Che danno sostentamento a circa 3.000 famiglie della zona (al 30 settembre gli impiegati erano 2.839 per l’esattezza) e ha un indotto generato dalla filiera produttiva calcolato intorno agli 8.000 impiegati. Più di 10.000 famiglie in una città che conta poco più di 100 mila abitanti.

Eppure, a leggere i dati del venduto forniti dall’azienda, la situazione è tutt’altro che tragica. Dopo un crollo verticale nella stagione 2008-09 (1.679 i milioni di euro derivanti dalle vendite), negli ultimi due anni la situazione è notevolmente migliorata: 2.408 l’incasso l’anno successivo, 2.476 quello scorso. Per dare un’idea della mole di lavoro sviluppata, basti pensare che l’azienda nel 2010-11 ha spedito in tutto il mondo 981 mila tonnellate di materiale.

E allora? Allora il problema sta proprio in quella piccola parolina: azienda. Già, perché fino allo scorso febbraio l’Acciai speciali Terni era in mano alla ThyssenKrupp. Anzi, era la casa madre italiana del colosso tedesco. A Terni il settore più importante della produzione, a Terni quel management che avrebbe dovuto, secondo l’accusa, sorvegliare gli stabilimenti di Torino nei quali, nel dicembre 2007, persero la vita 7 operai.

Quelli della sciagura torinese erano gli anni durante i quali l’azienda teutonica si trovava in debito d’ossigeno, meditando il disimpegno dai lidi italiani nonostante il fatturato del sito ternano fosse tutt’altro che disprezzabile. La tragedia di Torino e il conseguente processo spettacolo conclusosi con condanne senza precedenti per i più alti vertici dell’impresa, accelerarono un processo già in corso.

L’Europa blocca tutto
È inutile dire che l’assoluta mancanza di una pianificazione industriale ha permesso alla situazione di prendere una china tutt’altro che incoraggiante. Come spesso è accaduto tra la fine degli anni Ottanta e il decennio successivo, le grandi aziende italiane si sono spostate da un eccesso (la statalizzazione) all’altro (la dismissione selvaggia). Così nel 1988 le acciaierie ternane, che da 55 anni producevano sotto il cappello di mamma Iri, furono cedute in blocco al primo arrivato, in nome di uno dei tanti “piani di risanamento” messi in piedi all’epoca. Che, nel nostro caso, era l’Ilva della famiglia Riva, passata in questi mesi alla storia per la gestione degli impianti di Taranto. Solo nel 1994 arriva la Krupp (diventerà ThyssenKrupp nel 1999), che, dopo anni di vacche grasse, alla metà dello scorso decennio ha deciso di dismettere.

Così, a febbraio, la divisione acciaio inossidabile di ThyssenKrupp – compresa la Acciai Speciali Terni (Tk-Ast) – è diventata oggetto di desiderio per i finlandesi di Outokumpu, che per acquisirla hanno offerto la non indifferente cifra di 2,7 miliardi di euro. Di traverso ci si sono messe le istituzioni. Questa volta il papocchio non è attribuibile al Palazzo romano, ma si consuma in quel di Bruxelles. Che, ex-post e senza nessun alert significativo prima che si definisse la gigantesca operazione finanziaria, ha comunicato a Helsinki solamente lo scorso ottobre che non poteva concludere l’affare. «Per evitare di raggiungere una posizione dominante sul mercato della produzione a freddo, l’azienda finnica dovrà vendere l’impianto di produzione di acciaio inossidabile Inoxum di Terni entro sei mesi» è stata la doccia fredda della Commissione antitrust europea.

Ricapitolando: perché Thyssen possa incassare i quasi tre miliardi di euro ed entrare per il 29,9 per cento nel capitale azionario di Outokumpu, dovrà sbarazzarsi in tutta fretta dei suoi ultimi impianti italiani. Joaquin Almunia, vicepresidente della Commissione e responsabile delle politiche di concorrenza, all’epoca lo disse chiaramente: «La cessione dello stabilimento di Terni evita che la comparsa di un nuovo leader sul mercato europeo abbia effetti negativi per i consumatori e le imprese europee».

Il poco tempo a disposizione ha generato il timore che i nuovi proprietari “scorporino” la vendita. L’Acciai speciali Terni consta infatti di quattro diversi comparti di produzione, che possono essere venduti singolarmente. Ma il rischio è che, qualora gli impianti non vengano ceduti in blocco mantenendo la propria ragion d’essere, i nuovi acquirenti comprino singoli comparti della produzione per integrarla con il proprio patrimonio aziendale. E, ovviamente, ricollocarla altrove. A novembre il Ceo di Outukumpu ha sparso parole al miele sull’intenzione di Helsinki di vendere in blocco l’enorme struttura. Ma, considerati il costo e la specificità del sito di Terni, gli acquirenti scarseggiano. E sembra già segnato il destino del Tubificio (il settore della produzione leader nella realizzazione di tubi in acciaio inossidabile elettrosaldati): non dovrebbe rientrare nell’offerta.

La sentenza sul disastro di Torino
Il sindaco del capoluogo umbro ha preso carta e penna e scritto al colosso finlandese: «La preoccupazione è per la mancata inclusione del Tubificio nel pacchetto messo in vendita, ma confidiamo nella vostra disponibilità a inserirlo in caso di una richiesta che sia economicamente vantaggiosa. Il destino di Terni è quello dell’Acciaieria. Non a caso essa mantiene nella sua sigla il nome della città. Se l’Acciaieria muore, la città muore». Come sempre, la burocrazia italiana si è mossa con congruo ritardo. Il 26 novembre, Vanna Ugolini scriveva sul Messaggero che per evitare la deriva degli impianti ternani era allo studio l’attivazione di un fondo strategico da parte della Cassa depositi e prestiti. La chiusura anticipata della legislatura ha messo in bilico tale eventualità, ma che l’attuale governo si stia muovendo, lo sottolineano anche i duri e puri dell’Ugl. Il responsabile del dipartimento Industria del sindacato destrorso, Cristina Ricci, uscendo dall’ultimo vertice al ministero dello Sviluppo economico lo scorso 10 dicembre, dichiarava alle agenzie: «L’incontro, seppur interlocutorio, ci ha tranquillizzato. È emerso un obiettivo comune tra le parti: procedere sulla strada della salvaguardia dell’attività delle acciaierie di Terni, evitandone lo spacchettamento, e del mantenimento dei livelli occupazionali».

Sull’esito della vicenda incombe un’ombra. Marco Pucci, amministratore delegato delle Acciaierie, è sotto processo per “l’omicidio colposo” dei 7 operai morti nella sciagura di Torino. Pucci, all’epoca responsabile dei settori marketing e commerciale della Tk di Terni, avrebbe fatto parte secondo l’accusa di un comitato esecutivo con delle responsabilità dirette nella morte degli operai. Una tesi contestata dalla difesa. Lo stesso giudice ripercorrendo la ricostruzione della difesa individua «per ogni fase dell’incendio il verificarsi di almeno una conseguenza imprevedibile». Una tesi che, se accolta, aprirebbe una breccia nella sentenza di condanna di primo grado. Un’assoluzione in appello per il dirigente ternano, fugherebbe molte delle preoccupazioni dei pochi, possibili compratori. La sentenza, nonostante le lungaggini della giustizia italiana, dovrebbe arrivare ben prima di aprile. Un processo mediatico come quello di Thyssen val bene il sacrificio di qualche udienza anche nei giorni che vanno dal 2 al 4 gennaio. Giornate di festa nelle quali è più facile trovare spazio nella foliazione dei quotidiani.

@pietrosalvatori

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2 commenti

  1. francesco taddei

    Grazie per l’articolo. Vivo a Terni da quando sono nato e in questi ultimi anni la vicende dell’AST sono state assai tormentate. E’ una realtà produttiva in cui gli investitori spesso si dimenticano il lavoro fatto dagli uomini, che vengono ridotti a numeri. Nelle ultime settimane si sono susseguiti colloqui tra istituzioni e possibili investitori che, preghiamo il cielo, vadano a buon fine, poichè ad esso è legato il destino di migliaia di famiglie. Cordiali Saluti.

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