Caffarra, che non voleva «confondere la fede dei semplici»
Oggi, due anni fa, moriva il cardinale Carlo Caffarra, che degnò della sua amicizia questo giornale oltre ogni nostro merito e che non smise mai di incoraggiarci a sostenere pubblicamente una posizione cristianamente orientata (mai clericale!).
La lectio magistralis all’oratorio
Mi si conceda un ricordo personale. La prima volta che lessi qualcosa di suo fu ai tempi del Foglio, quando il giornale diretto da Giuliano Ferrara pubblicò un suo intervento strepitoso ad un convegno organizzato dal Csi (Centro sportivo italiano). Il titolo di quella lezione – se non ricordo male fuoriuscito dal genio della lampada di Giuliano Ferrara – era altrettanto strepitoso: “Il Cardinale all’oratorio si libera del nichilismo post moderno“. Insisto sul “geniale” perché, a me pare, nell’apparente contrasto tra il luogo e il contenuto – da una parte l’oratorio, il Csi, il posto dove tutti noi pensiamo che si giochi a pallone, e basta. E dall’altra, la lectio magistralis su educazione e libertà, con citazioni colte e coltissime – sta il “segreto” di Caffarra. Che era un uomo di smisurata fede, di enciclopedica cultura, ma capace di stare in mezzo al popolo, tra le massaie e gli operai, le salamelle e le birre dei ritrovi di paese.
La sua ultima lezione
Il vaticanista del Foglio, Matteo Matzuzzi, cui si deve una delle sue ultime interviste, lo ha definito «il dottrinario rimasto prete». Perfetto, è stato proprio così. Viveva una così grande passione educativa, inesauribile, che non perdeva occasione, anche nei consessi apparentemente meno adeguati, di spiegare, illustrare, insistere sulla razionalità e il fascino della fede. Appunto: all’oratorio o a Londra, dove avrebbe dovuto essere ospite – se la morte non l’avesse raggiunto prima – di un minuscolo centro culturale italiano per una lezione sul brindisi di Newman (quella lezione inedita la pubblicammo su Tempi. È l’ultima suo contributo scritto rimasto).
«Dite che ho un’amante»
Solo i rancorosi potevano pensare che fosse un uomo rinchiuso nei suoi pregiudizi dottrinari, ingabbiato in un precettistica sterile e incapace di vedere le ferite che la vita, ogni vita, porta in ogni umana avventura. Al contrario, Caffarra era uno spirito solare, socievole, persino allegro e bonario. Ma anche serio e deciso, quando occorreva esserlo. Soprattutto, come poi mi capitò di appurare diverse volte discutendo con lui, sempre attento a non dare scandalo, a non dire una parola in più che potesse essere di ostacolo all’adesione alla Chiesa o mettesse in discussione la fedeltà al Pontefice. Celebre è la sua battuta: «Dite che ho l’amante, ma non che sono contro il Papa».
La fede dei semplici
In tutti i dialoghi che ho avuto con lui, non gli ho mai sentito pronunciare una parola contro il Santo Padre. Mai. Anche la scelta di pubblicare i Dubia fu per lui certamente un travaglio e scelse la via canonica più formale possibile proprio per rimanere nell’alveo consentito dalla Chiesa. Solo una volta, ma quasi sottovoce – e si era al tempo su cui, sul suo conto, si scrivevano cose terribili – si lasciò scappare con me la frase «non bisogna mai confondere le fede dei semplici».
Le domande sull’oggi
Verso questi semplici, quest’uomo d’immensa cultura, questo principe della Chiesa aveva una cura e una premura assolute (per l’educazione dei bambini, poi, aveva una predilezione particolare). Oggi avrei mille domande da fargli: sulla Chiesa, su cosa sta accadendo all’Istituto Giovanni Paolo II, su Bibbiano, sul mondo, sulle nuove e millenarie ideologie che cercando di rendere l’uomo un nuovo dio. Sono sicuro che risponderebbe a tutte, con calma. Per poi concludere alla fine il ragionamento con un affettuoso consiglio: «Voi giornalisti, però, una volta tanto, cercate di fare i bravi».
Foto Ansa
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