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«Bocciamo la scuola del “saper fare” e torniamo a quella del sapere»

Intervista a Riccardo Prando, docente e autore di "Contro la scuola": «C'è troppa burocrazia. Insegnare significa trasmettere un significato, “lasciare un segno”»

Francesca Parodi
02/09/2017 - 1:00
Società
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scuola-alunni-shutterstock-78859288

Contro la scuola (ed. La fontana di Siloe) è il provocatorio titolo dell’ultimo libro di Riccardo Prando, professore di scuola secondaria da trent’anni in cattedra. Il sottotitolo del libro è molto esplicito: Perché opporsi a un modello educativo che privilegia la burocrazia a scapito della cultura. E riduce lo studente a numero. Negli ultimi decenni, racconta Prando a tempi.it, la scuola è profondamente cambiata, «decisamente in peggio». La didattica dell’insegnamento è stata sacrificata a favore di pile di documenti da compilare. Risultato: si insegna poco e male e i ragazzi escono dagli studi sempre più ignoranti. Il livello generale di istruzione si è decisamente abbassato. «Oggi nei consigli di classe non si parla quasi più dei singoli studenti, delle loro fragilità o dei loro meriti, ma tutto il tempo viene assorbito dalla burocrazia».

buona-squola-tempiD’altra parte, non c’è più motivo di discutere sulle eventuali difficoltà degli studenti perché il ministero dell’Istruzione «ha scelto le politica dell’“avanti tutti”»: alle elementari e alle medie gli alunni non potranno più essere bocciati, se non in casi eccezionali (abbandono dell’anno scolastico, assenze prolungate) e comunque con il voto favorevole di tutti gli insegnanti del consiglio di classe. «Così ci ritroviamo a dover inserire all’Università corsi specifici per insegnare come scrivere una tesi di laurea per colmare le gravi lacune degli studenti» commenta Prando. Il terrore di provocare un trauma nella psiche del bambino facendogli ripetere l’anno danneggia la prerogativa della scuola: tenere conto delle debolezze e dei punti di forza di ciascuno studente. «È come se io fossi capace di correre i cento metri, ma mi obbligassero seduta stante a correre per un chilometro. Per riuscirci ho bisogno invece di più tempo e di più allenamento. Lo stesso è con il passaggio da una classe all’altra. E comunque una bocciatura non è certo una questione di vita o di morte».

Ad essere messo in discussione oggi è proprio il ruolo dell’insegnamento scolastico. Nel suo libro, Prando scrive di aver osservato un passaggio da un insegnamento ancorato al “sapere” ad una formazione improntata sul “saper fare”. «Faccio un esempio: qualche anno fa il preside di una scuola in cui insegnavo voleva promuovere a tutti i costi un alunno che aveva una pagella pessima. A sostegno della sua tesi, disse che non è importante conoscere un quadro, il suo autore e la sua corrente artistica, ma saper piantare un chiodo nel muro per poter appendere il suddetto quadro. Questa visione segna la fine della scuola, che oggi non fa più cultura».

Al di là dei cambiamenti socio-culturali, questa decadenza della scuola è legata per il professore ad uno spirito competitivo non sano dell’Italia nei confronti degli altri paesi europei. «I docenti perdono tempo dietro alla burocrazia per dimostrare ai presidi e, più in generale, alla nazione che la scuola va bene, così l’Europa non ci tira le orecchie se non rientriamo in certi parametri. In Europa il numero di bocciature è basso e quindi decidiamo di promuovere tutti indiscriminatamente». Anche l’obbligo scolastico a 18 anni «è una mossa stupida», dice Prando, perché «quello che conta è la qualità dell’insegnamento. Mia nonna, nata nel 1897, figlia di contadini, lavorava in una camiceria e aveva potuto frequentare solo la prima elementare. In un solo anno, imparò a scrivere, leggere e fare di conto. Posso assicurare che oggi, dopo cinque anni di elementari, almeno il 50 per cento dei bambini non raggiunge un buon livello di istruzione».

Il modello di scuola che Prando auspica è invece un sistema educativo privo di burocrazia ingombrante, dove venga recuperato il rapporto uno a uno con l’alunno. «È soltanto il rapporto empatico, umano, con il ragazzo che si ha di fronte a poter salvare la scuola, altrimenti le aule continueranno ad essere una prigione». Lo scopo della scuola, scrive l’autore nel suo libro, è quello di dare, o almeno cercare di dare, un senso alla vita: «Insegnare significa proprio trasmettere un significato, “lasciare un segno”».

Per approfondire il dibattito, leggi il nuovo numero di Tempi “La buona squola”.

@fra_prd

Foto Ansa

Tags: burocraziaEducazioneScuola
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