
La vicenda, nei sui elementi essenziali, è nota. L’11 ottobre scorso la professoressa Maria Cristina Finatti, docente di Scienze e Biologia presso l’Istituto Superiore “Viola-Marchesini” di Rovigo, è stata fatta oggetto di una vile aggressione da parte degli studenti di prima di una delle sue classi. I quali le hanno sparato contro, due volte, pallini da una pistola ad aria compressa; la seconda volta colpendola senza per fortuna arrecarle danni. Nel frattempo, un video girato mentre partivano i primi colpi era già stato messo on line, per il ludibrio dei ragazzi evidentemente fieri di poter esibire il loro “trofeo”. Insomma, offesa e umiliata.
Passano giorni, settimane, mesi. Silenzio totale. Nessuna richiesta di scuse, da nessuno. Non dai ragazzi, ma – quel che è più grave – neanche dai genitori (tranne uno, come ha rivelato la docente in un’intervista al Corriere della Sera del 15 gennaio scorso). E la scuola? Non pervenuta. Non un provvedimento è stato emesso a carico dei ragazzi (formalmente perché – secondo quanto riportato nell’intervista – un genitore avrebbe bloccato l’iter per un errore nella trascrizione); non solo: uno dei genitori che di recente – dopo che nei giorni scorsi si è saputo che la professoressa, fatto senza precedenti, ha denunciato tutta la classe – ha avuto il coraggio di rompere il muro di omertà schierandosi dalla parte dell’insegnante, ha raccontato che a sua precisa richiesta alla preside dell’Istituto di organizzare un incontro genitori-alunni per capire cosa fosse successo e chiedere scusa, la preside l’avrebbe “negato dicendo di lasciar perdere, che la cosa sarebbe scemata” (si veda il Corriere della Sera del 16 gennaio).
Paura che se si fosse alzato un polverone rischiava di rimetterci il buon nome dell’Istituto, con tutto ciò che ne sarebbe venuto? In attesa di lumi, resta un atteggiamento a dir poco sconcertante. Ma non è neanche questo il problema. Così come il problema non è solo l’atteggiamento da bulli e leoni da tastiera dei ragazzi (che in ogni caso andrebbe punito senza se e senza ma). Il problema vero è, come si suol dire, “a monte”. Perché quanto accaduto alla malcapitata docente non è altro che l’ennesima conferma che è ora che una certa parte culturale e politica del paese, quella che da mezzo secolo e oltre è egemone indisturbata nella scuola e altrove, insomma la sinistra, infranga il suo tabù forse più caro e, per questo, il più duro a morire: ammettere una volta per tutte il fallimento del Sessantotto.
Che se vogliamo chiamare le cose con il loro nome, quanto accaduto in quell’Istituto di Rovigo non è altro che l’ennesimo frutto marcio di quella stagione. Forse è per questo che sulla vicenda non si sono letti, tranne qualche eccezione ma che però aveva un pungente odore di tappo, così tanti commenti e analisi, vero? Men che meno una qualche autocritica.
Ma il punto resta. E il punto qui non è solo la mala educazione dei ragazzi, quella è la punta dell’iceberg (che tuttavia, lo ripetiamo a scanso di equivoci, andrebbe sanzionata). Il punto vero è l’habitus culturale dei genitori, che non educano i ragazzi perché a loro volta è stata inculcata (con l’aggravante però che l’anno fatta propria) un’idea di uomo, con annessa un’idea di libertà, al quale nulla dev’essere precluso perché a tutto ha diritto.
La ferita mortale che il Sessantotto ha inferto alla società, in primis a livello culturale, è stata la condanna senza sconti del principio di autorità, che venne soppiantato da una prometeica etica del diritto che pian piano ha portato alla barbarie che vediamo oggi. Logica conseguenza di questo processo basato sul principio “ho diritto, dunque sono”, la messa al bando dell’educazione in quanto concetto reazionario e l’adozione di modelli pedagogici che si volevano anti-autoritari (tipo il montessoriano riassunto nello slogan “il bambino è il maestro”, una scemenza col botto) e le cui conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.
E quali erano i simboli per eccellenza dell’autorità? La famiglia, e la figura paterna in particolare, e la scuola, cioè appunto gli insegnanti (c’erano anche la Chiesa e lo Stato, ma non interessano in questa sede). Famiglia e scuola che per decenni sono stati i due polmoni, per rifarci ad una suggestiva immagine di san Giovanni Paolo II, che garantivano ossigeno al corpo sociale, essendo l’uno all’altro complementari e sinergici. Poi, colpiti dalla furia dell’ideologia contestatrice, sono stati abbattuti singolarmente ma soprattutto è stato rescisso il legame che li univa (divide et impera, dice niente?) col risultato che l’uno – la scuola – è divenuto pian piano non arrivo a dire nemico ma di sicuro un ostacolo all’altro – la famiglia.
Ostacolo a cosa? Ma al libero e incondizionato sviluppo dei fanciulli, e che diamine. I quali, al pari dei loro genitori, crescono e vengono cresciuti trastullandosi con l’idea di un innato quanto illimitato diritto, manco fossero i padroni del mondo: a stare in classe come vogliono, ad avere lo smartphone che vedi mai gli viene una crisi di panico senza, a prendere bei voti anche se sono dei somari (a tal riguardo vorrei sommessamente ricordare a lorsignori che la Costituzione più bella del mondo all’art. 34 recita: “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Chiaro, no? I capaci e i meritevoli hanno diritto, non tutti. Nell’ovvio presupposto, per chi, come i padri costituenti, abbia una visione delle cose improntata al principio di realtà, parente stretto di quello di autorità, che nella scuola, come in tutti gli ambiti della vita, esistono gli incapaci e chi non merita di andare avanti. Non succede niente, non è che se uno non è diplomato o laureato vale meno, tranquilli); naturalmente, e come conseguenza del succitato diritto, ad essere promossi, e poi ad andare all’università, e poi a trovare lavoro (leggi bene: posto fisso, ben retribuito, meglio se sotto casa); e poi ad avere una casa di proprietà, figli no perché impicciano, eccetera eccetera eccetera.
In questa, come dire, visione dell’uomo non è contemplata l’idea stessa del limite. Non è contemplata l’idea che assieme ai diritti esistano i doveri. Non è contemplata l’idea che una società senza regole è come il traffico senza la segnaletica: impazzisce.
Breve parentesi personale. Ho frequentato le scuole superiori nella prima metà degli anni ’80, liceo scientifico. L’agognato diploma arrivò nel luglio del 1986, quest’anno saranno trentasette anni fa. Che però sembrano trentasette anni luce. Non solo un altro secolo, ma proprio un altro mondo, altra epoca, altro tutto. Se tornavi a casa con un brutto voto, prima ancora che sentire spiegazioni ti strapazzavano di brutto. Alle volte anche con annesso scappellotto. Poi dopo, molto dopo, stavano a sentire i perché e i percome, e in ogni caso mai, e dico mai, una lamentela contro l’insegnante. Perché? Perché ciò che diceva l’insegnante era sentenza di cassazione, non si discuteva. Poi magari il singolo docente sbagliava pure, ma la figura, il ruolo dell’insegnante non era in discussione. Insomma, c’era rispetto.
Lo si vedeva anche in classe. Non che fossimo, né questo era richiesto, imbalsamati, intendiamoci. E magari li odiavi pure perché erano duri, perché ti caricavano di compiti come un mulo o perché avevano un debole per il secchione di turno. Ma c’era rispetto. E quando dico rispetto intendo, tanto per cominciare, che quando entravano in classe ci si alzava in piedi e si salutava. Poi d’accordo, alle volte ti usciva un “‘ngiorno prof” a mezza bocca, altre volte un suono più o meno disarticolato che non sapevi se umano o felino, altre volte ancora il saluto si stagliava forte e chiaro nell’aula. Ma di certo non ti passava per la mente di non alzare il fondoschiena e salutare. E quando ti scappava di fare pipì, si chiedeva il permesso per andare al bagno. E mentre il/la prof. spiegava, di norma, dico di norma si stava in silenzio, o quanto meno si parlottava sotto voce.
Ora invece già è tanto se saluta, la meglio gioventù di oggi; e per riuscire a fare lezione i docenti devono urlare e richiamare di continuo l’attenzione perché spesso e volentieri i pargoli se ne stanno per i fatti loro chattando o messaggiandosi beati, e magari si infastidiscono pure se vengono disturbati; e bisogna pure che stiano attenti a come ci si rivolge loro perché vedi mai che poi crescono con qualche turba per colpa di quel “fascista” del professore (a proposito, ma una volta che gli/le danno del/della comunista, no?). E se poi dopo sei ore filate di lezione che la gola arde e la voce se n’è andata, per loro somma sfortuna gli capita, chessò, che si dimenticano di consegnare in segreteria il tal documento, bè in quel caso oltre ai danni fisici e psichici della lezione, la beffa che si prendono pure un cazziatone dal/dalla preside (dirigente d’istituto, con pardon).
Potremmo andare avanti a lungo. Ora, le lancette dell’orologio indietro non si possono mettere, e va bene. Il problema però resta. E allora va ribadito che è quanto mai urgente che se la società, a partire dalle famiglie, non sarà in grado di restituire agli insegnanti lo status che a loro compete, e che avevano prima che il Sessantotto travolgesse con l’acqua sporca (ma era poi così sporca?) anche il bambino, non andremo da nessuna parte. Stavolta è successo a Rovigo, la prossima capiterà altrove, poco cambia.
Occorre riportare nella società e nella scuola il principio di autorità, che non vuol dire autoritarismo bensì superamento di una logica ego-centrica quando non ego-latrica della vita. Significa riaffermazione che non ci stiamo solo noi a questo mondo, che oltre all’Io c’è un Tu e un Noi. Significa smetterla di vivere in maniera infantile e diventare adulti. Significa imparare ad avere rispetto: di sé stessi, dei docenti, dei compagni di classe e del personale che lavora nella scuola; come anche del decoro e della disciplina (l’obbedienza, checché se ne dica, è ancora una virtù). Insomma, che non puoi vivere facendo semplicemente il cazzo che ti pare (scusate l’aramaico).
Soprattutto è urgente che i ragazzi tornino ad avere ben chiaro che l’insegnante non è un pinco pallino qualsiasi, né tanto meno un amico o un confidente, ma il loro insegnante. E che la scuola è un posto dove esistono regole e codici di condotta. Così come un’azienda, una squadra di calcio, uno studio di architettura, o quello che sia. Un contro è la libertà, tutt’altra faccenda è l’anarchia. Non sappiamo se l’iniziativa legale della professoressa Finatti avrà seguito (così a naso qualche dubbio sorge). Ma almeno uno lo scopo l’avrà raggiunto se sarà servita a scuotere le coscienze, a dare un segnale forte e chiaro che così non è possibile andare avanti.
Non molto tempo fa il ministro Valditara venne sbertucciato per aver detto che bisognerebbe mandare i bulli ai servizi sociali (il contesto del suo discorso, ovviamente ignorato dai sacerdoti del pensiero unico, era quello del contrasto al bullismo); può essere un primo passo, tanto più in casi eclatanti e gravi come quello di Rovigo. La sfida più grande è e resta a livello culturale. Sfida che riguarda tutti: istituzioni, politica, società, cittadini. Nessuno escluso. La cosa più importante da fare è archiviare il Sessantotto. Con tutto ciò che ancora simboleggia. Avendo a mente ciò che diceva Joseph De Maistre: “una controrivoluzione non è una rivoluzione di segno contrario, ma il contrario di una rivoluzione”. Chi ha orecchie, intenda.
Luca Del Pozzo
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Joseph Ratzinger è nato a Markti (Germania). Ha studiato filosofia e teologia nella scuola superiore di filosofia e teologia di Frisinga e nell’Università di Monaco di Baviera. Consacrato sacerdote nel 1951, Ratzinger ha insegnato nelle più celebri università tedesche. E’ stato uno dei più giovani esperti presenti al Concilio Vaticano II. Nominato Arcivescovo di Monaco di Baviera nel 1977 da Paolo VI e responsabile della Congregazione per la Dottrina della Fede nel 1981 da Giovanni Paolo II, è stato tra i principali collaboratori del Pontefice polacco. Nel 2005 è stato eletto Papa con il nome di Benedetto XVI. Nel 2013 ha annunciato l’abbandono del suo incarico, ritirandosi in Vaticano dove, in assoluto silenzio, si dedicò alla preghiera, agli studi e alla stesura di pubblicazioni, tra cui la stesura de “L’infanzia di Gesù e, in due parti, Gesù di Nazaret”. Numerosi furono i suoi interventi, tra cui Costituzioni Apostoliche, Esortazioni Apostoliche, e Encicliche: nel 2005 Deus Caritas Est, nel 2007 Spe Salvi, nel 2009 Caritas in Veritate.
Un accorato appello è stato indirizzato da Joseph Ratzinger – Benedetto XVI all’Europa affinché riscopra e riaffermi la sua vera origine e identità che l’hanno resa grande e un modello di bellezza e di umanità. Con il testo “La vera Europa – Identità e missione”, volle chiarire che non si tratta di imporre a fondamento dell’Europa le verità di fede, quanto, piuttosto, di fare una scelta ragionevole, che riconosca che è più naturale e giusto vivere “come se Dio ci fosse”, piuttosto che “come se Dio non esistesse”.
In quest’ottica, ebbe ad evidenziare che l’Europa, procedendo all’unificazione in modo unilaterale all’insegna dell’economico, della quantità, della non attenzione alla storia e dell’astorico, con un cammino senza interventi correttivi, non offrirebbe più una vera speranza. “L’omologazione della vita in tutti i suoi ambiti, dall’abbigliamento al cibo, agli edifici e alla lingua, porta con sé un appiattimento degli spiriti, all’interno del quale proprio il continuo cambiamento delle forme esteriori, viene sperimentato come moria totale”.
“La persona umana – ebbe a dire – diventa senza anima, diventa nel vero senso della parola un alieno a sé stesso. Laddove il morale e il religioso vengono ricacciati nell’esclusivamente privato, vengono a mancare le forze, che sole possono formare una comunità e tenerla insieme”. Ed è questo un problema molto serio: l’antitesi tra tolleranza e verità, che sempre più diventa il dilemma del nostro tempo. La conseguenza – sottolineò – di una totale neutralità morale e religiosa, si canonizza il potere del più forte: la maggioranza diventa l’unica fonte del diritto. Solo riscoprendo la propria anima, diviene possibile salvare sé stessi e il mondo dalla autodistruzione.
“L’Europa fa oggi il tentativo di rivestirsi della propria storia e di dichiararsi neutrale nei confronti della fede cristiana, anzi, nei confronti della fede in Dio, per arrivare finalmente ad una tolleranza senza frontiera: un simile pensiero e comportamento che si pone contro la storia, è autodistruttivo”. La libertà senza fondamenti morali diventa anarchia, e l’anarchia conduce inevitabilmente al totalitarismo, anzi, è già una manifestazione dello spirito totalitario.
“Sembra che il mondo di valori dell’Europa, la cui cultura e la sua fede, su cui si basa la sua identità, sia giunto alla fine e sia propriamente già uscito di scena. L’Europa sembra diventata vuota al suo interno, paralizzata, da un certo qual senso, da una crisi del suo sistema circolatorio, ma così mette a rischio la sua vita, affidata per così dire a trapianti, che poi, però, non possono che eliminare la sua identità.
A questo interiore venir meno delle forze spirituali portanti corrisponde di fatto che anche eticamente l’Europa appare sulla via del congedo”.
“C’è una strana mancanza di voglia del futuro. I figli che sono il futuro, vengono visti come una minaccia per il presente; essi ci portano via qualcosa della nostra vita, così si pensa. Essi non vengono sentiti come una speranza, bensì come un limite del presente”. Appare estremamente evidente la differenza tra progresso materiale-tecnico e progresso reale, definito come spiritualizzazione. Il mondo occidentale si trova in una crisi, la cui causa la si vede nel fatto che dalla religione si è decaduti al culto della tecnica, della nazione, del militarismo. La crisi ha un nome: secolarismo.
Se si conosce la causa della crisi si può indicare anche la via della guarigione: deve essere nuovamente introdotto il momento religioso, di cui fa parte l’eredità religiosa di tutte le culture, ma specialmente quello che è rimasto del cristianesimo occidentale. Alle visioni biologistiche in atto, si contrappone qui una visione volontaristica, che punta sulla forza delle minoranze creative e sulle personalità singole eccezionali.
“La domanda che ci si pone è: è giusta questa diagnosi? E se sì, è in nostro potere introdurre nuovamente il momento religioso, in una sintesi di cristianamente residuale ed eredità religiosa dell’umanità?”. Ci si pone il compito di interrogarci su che cosa può garantire il futuro, e su che cosa è in grado di continuare a far vivere l’interiore identità dell’Europa attraverso tutte le metamorfosi storiche. E ancora più semplicemente: che cosa anche oggi e domani promette di donare la dignità umana ed una esistenza conforme ad essa.
Da qui ulteriori domande: a che punto siamo oggi? Come devono andare avanti le cose? Nei violenti sconvolgimenti del nostro tempo, c’è una identità dell’Europa che abbia un futuro e per la quale possiamo impegnarci con tutto noi stessi? Alle domande, Joseph Ratzinger, brevemente espresse risposte, indicando gli elementi morali fondanti che non dovrebbero essere dimenticati.
“Un primo elemento è l’”incompiutezza” con cui la dignità umana e i diritti umani devono essere presentati come valori che precedono qualsiasi giurisdizione statale. Questi diritti fondamentali non vengono creati dal legislatore, né conferiti ai cittadini, ma piuttosto esistono per diritto proprio, sono da sempre da rispettare da parte del legislatore, sono a lui previamente dati come valori di ordine superiore. Questa validità della dignità umana previa ad ogni agire politico e ad ogni decisione politica rinvia ultimamente al Creatore: solamente Egli può stabilire valori che si fondano sull’essenza dell’uomo e che sono intangibili. Essi non sono valori manipolabili per nessuno: è la vera e propria garanzia della nostra libertà e della grandezza umana”.
“Oggi – ebbe ad evidenziare il Papa emerito – quasi nessuno negherà direttamente la precedenza della dignità umana e dei diritti umani fondamentali rispetto ad ogni decisione politica. Ma nell’ambito concreto del cosiddetto progresso della medicina ci sono minacce reali per questi valori: sia che noi pensiamo alla clonazione, sia che pensiamo alla conservazione dei feti a scopo di ricerca e di donazione degli organi, sia che pensiamo a tutto quanto nell’ambito della manipolazione genetica, la lenta consunzione della dignità umana che qui ci minaccia, può esser e misconosciuta. A ciò si aggiungono i traffici di persone umane, le nuove forme di schiavitù, l’affare dei traffici di organi umani a scopo di trapianti …. Senza omettere lo sconvolgimento in Europa di matrimonio e famiglia. Il matrimonio monogamico, come struttura fondamentale nella relazione tra uomo e donna, e al tempo stesso come cellula della formazione della comunità statale, è stato forgiato a partire della fede biblica. E sempre vengono addotte “finalità buone”, in nome di una libertà presunta, per giustificare ciò che non è giustificabile”.
Infine, la questione religiosa. Senza entrare nel merito della discussione complessa degli ultimi anni, Benedetto XVI, mette in rilievo un aspetto fondamentale per tutte le culture: il rispetto nei confronti di ciò che per l’altro è sacro, e particolarmente il rispetto per il sacro nel senso più alto, per Dio, cosa che è lecito trovare anche in colui che non è disposto a credere in Dio. Laddove questo rispetto viene perduto, viene infranto, in una società qualcosa di essenziale va perduto. Nella nostra società, grazie a Dio, viene punito chi disonora la fede di Israele, la sua immagine di Dio, le sue grandi figure. E ciò avviene nei confronti di chi vilipendia il Corano e le convinzioni di fondo dell’Islam. Laddove invece si tratta di Cristo e di ciò che è Sacro per i cristiani, ecco che allora la libertà di opinione appare come il bene supremo”.
È evidente che ricorrere alla libertà di opinione per negare, minacciare e addirittura distruggere la libertà religiosa e le sue profonde convinzioni, è distruggere l’onore e la dignità dell’altro, e ciò non è libertà, ma sopruso. E’ la negazione dei diritti umani ai quali l’Europa dice di credere, ma che in realtà dileggia.
“C’è qui un odio di sé dell’occidente che è strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico. L’Europa, per sopravvivere, ha bisogno di una nuova – certamente critica e umile – accettazione di sé stessa, se non vuole davvero sopravvivere”. Da qui l’evidenza della necessità di un riconoscimento e l’attestazione delle proprie radici cristiane, come collante per una società europea libera, solidale e sussidiaria.
Ma come andranno le cose in Europa in futuro non lo sappiamo. La “carta dei diritti fondamentali” può essere un primo passo, un segno che l’Europa cerca nuovamente in maniera cosciente la sua anima. Ed è questo il messaggio che Joseph Ratzinger – Benedetto XVI – ha lasciato “a memoria futura”.
Giancarlo Tettamanti
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La morte di Benedetto XVI ha suscitato grande emozione e anche polemiche. Ma, al di là di questo, egli ci ha consegnato un estremo lascito spirituale.
Lo ha fatto lasciando un testamento, datato 29 agosto 2006 e diffuso dalla sala stampa vaticana poche ore dopo il decesso, in cui invita a “rimanere saldi nella fede” e a “non lasciarsi confondere”. Lo ha fatto disponendo per se stesso funerali nel segno della semplicità.
“Signore ti amo” sono state nella notte le sue ultime parole, pronunciate in italiano con un filo di voce e raccolte da un infermiere. «Sono state le sue ultime parole comprensibili, perché successivamente non è stato più grado di esprimersi» — ha spiegato padre Georg Gänswein, il suo segretario.
È circolato anche una sorta di secondo testamento spirituale, una lettera che il Papa emerito aveva scritto il 6 febbraio 2022 circa il rapporto sugli abusi avvenuti nell’Arcidiocesi di Monaco e Frisinga all’epoca in cui ne era arcivescovo. Presagendo che ben presto si sarebbe trovato “di fronte al giudice ultimo”, attraversando “la porta oscura della morte”, egli confessava di non temere e di essere “con l’animo lieto”, perché confidante «fermamente che il Signore non è solo il giudice giusto, ma al contempo l’amico e il fratello che ha già patito egli stesso le mie insufficienze e perciò, in quanto giudice, è al contempo mio avvocato».
Ed infine ha scritto: «In proposito mi ritorna di continuo in mente quello che Giovanni racconta all’inizio dell’Apocalisse: egli vede il Figlio dell’uomo in tutta la sua grandezza e cade ai suoi piedi come morto. Ma Egli, posando su di lui la destra, gli dice: “Non temere! Sono io…”».
“Non perdetela mai”, sono state le ultime parole di fratel Biagio Conte, riferite a quella speranza che, insieme alla carità, è nel nome e nello spirito animatore della Missione di speranza e carità che egli ha fondato nel 1991.
Negli anni il frate laico ha costruito una rete di comunità: otto per uomini, una per donne e mamme con bambini. Ha dato un pasto caldo, un vestito, un maglione a chi non l’aveva e un riparo a chi per residenza aveva la strada e per tetto i portici della stazione di Palermo. «Ogni comunità – si legge sulla pagina Facebook – è dotata di una cucina e di una mensa dove vengono distribuiti tre pasti al giorno (…); è inoltre garantita un’assistenza medica e farmaceutica per tutti i fratelli accolti e dei servizi docce e vestiario». Ma prima ancora fratel Biagio ha ridato dignità a chi disperava di averla, a quelli che «vengono chiamati barboni, vagabondi, giovani sbandati, alcolisti, ex detenuti, separati, prostitute profughi, immigrati», ma che in Missione sono «fratello e sorella senza alcuna distinzione» (portale della Missione).
Biagio ha suscitato scandalo quando c’era da scuotere le coscienze intorbidite e distratte, lanciando appelli, andando a dormire sotto i portici del palazzo delle Poste centrali, digiunando per giorni. Ma così «ha testimoniato concretamente, in maniera coinvolgente ed eroica» i valori di solidarietà e dignità della persona, come ha scritto il Presidente Mattarella nel suo messaggio di cordoglio .
E alla messa dell’8 gennaio, la sua ultima messa, ha chiesto di esserci e si è fatto portare, sdraiato su una lettiga, a lato dell’altare nella chiesa della Missione. «Fratel Biagio, alzati…», ha urlato qualcuno e «Dio, aiutalo», qualcun altro. Quattro giorni dopo è deceduto a causa di quella gravissima forma di tumore al colon con cui da tempo lottava nella stanza-infermeria della Cittadella del povero e della speranza, in via Decollati.
La morte è il contrassegno della creaturalità ‒ tutto quanto è creato è mortale ‒, ma a fronte della morte l’eccezionalità dell’amore sta nel fatto che esso non può affatto essere mortale. Esso addita qualcosa che è oltre le miserie e gli egoismi, qualcosa di “sensibile e sovrasensibile insieme”, “in apparenza transitorio, ma in realtà eterno” — scriveva il filosofo F. Rosenzweig. Mostra che ciò che dà senso non è tanto sapere per cosa si vive, quanto sapere per chi si vive. Né presume di sapere, nel senso di un sapere impersonale, ma “crede eo ipso”, ponendosi nella confidenza personale, potremmo dire tra io e tu.
Nessun timore c’è nell’amore; “l’amore scaccia il timore” — scrive Giovanni nella Prima Lettera —, foss’anche il timore della morte. Quindi, può redimere la vita, e può resistere alla morte. E ciò vuol dire che questa non ha l’ultima parola né è l’ultima realtà.
Clemente Sparaco
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