Birmania, due anni di carcere a chi si converte «per danneggiare un’altra religione»

Di Benedetta Frigerio
10 Febbraio 2015
Approvata in parlamento una norma che sottopone la coscienza dei cittadini al vaglio di una commissione governativa. Nel mirino è sempre la "minaccia" cristiana

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La camera alta del parlamento birmano ha approvato una legge che sottopone al vaglio di una commissione governativa ogni volontà di conversione da una religione a un’altra. La norma prevede fino a 2 anni di carcere per chi si converte «con l’intenzione di insultare, mostrare disprezzo, distruggere o danneggiare una religione», senza specificare che cosa questo significhi esattamente, ed è stata «fermamente condannata» dalla Commissione Usa per la Libertà religiosa internazionale, mentre la Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite ha difeso l’intervento della sua rappresentante per la Birmania, Yanghee Lee, che si è espressa contro l’approvazione della norma.

INCOSTITUZIONALE. Quando la proposta di legge era ancora al vaglio del parlamento, 180 organizzazioni della società civile hanno condannato il testo, accusandolo di «distruggere la stabilità del Myanmar» e di contraddire la Costituzione birmana (che garantisce la libertà religiosa), anche perché alla commissione di 11 persone incaricata di vagliare le richieste di conversione i cittadini sono tenuti a fornire un’ampia gamma di informazioni sulla propria vita privata. Purtroppo questa non è la prima prova del fatto che la carta costituzionale, approvata nel 2008, non è servita a fermare i conflitti religiosi che da oltre cent’anni lacerano il paese. Il cristianesimo, presente da cinquecento anni in Birmania grazie ai missionari, è ancora visto infatti come una minaccia alla sua sopravvivenza in questo paese dalla forte identità nazionalista buddista. Si aggiunge inoltre lo scontro fra buddisti e islamici in atto da tempo nella regione di Rakhine: almeno 200 morti e 250 mila sfollati solo nel 2012, con 800 mila musulmani considerati immigrati illegali.

UNA TREGUA. Per questo motivo, esattamente un anno fa, era apparso incredibile che cattolici, musulmani e buddisti, potessero ritrovarsi insieme a pregare presso il santuario di Nostra Signora di Lourdes a Nyauglebin. Il governo aveva allentato i controlli, permettendo a circa centomila persone di recarsi in quel luogo dal 7 al 9 febbraio, in occasione dell’anniversario delle apparizioni di Lourdes (11 febbraio). Durante le celebrazioni il cardinale Charles Bo, arcivescovo di Yangon, aveva parlato proprio dell’azione dei missionari cristiani – secondo molti osservatori il vero obiettivo della norma sulle conversioni – disposti a rischiare la vita per l’alfabetizzazione e la diffusione del Vangelo fra la popolazione delle zone montagnose, dimenticata dal governo. In quell’occasione fedeli di ogni religione avevano pregato «per la riconciliazione», affinché i fatti del passato non fossero «mai dimenticati», ma «le ferite fossero lenite».

LE PAROLE DELLA CHIESA. Charles Bo aveva anche chiesto alle autorità del paese di «non interferire con il diritto individuale di scegliere la propria religione», perché «la conversione è una questione di coscienza». Ma nonostante i cristiani siano appena il 5 per cento (1 per cento cattolici) rispetto a una popolazione di circa 52 milioni di persone, sono attualmente il bersaglio principale dell’azione repressiva nei confronti delle minoranze non buddiste messa in atto dal governo, preoccupato proprio per il fatto che crescano in numero nonostante le persecuzioni. Non a caso la Birmania dal 2013 al 2014 è passata dal 46esimo posto al 25esimo nella lista dell’associazione “Open doors” dei paesi in cui la libertà religiosa è minacciata.

@frigeriobenedet

Foto Yangon da Shutterstock

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