Big Society capovolta
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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Era il cuore della dottrina Cameron, la Big Society: l’idea che lo Stato dovesse farsi da parte in diversi settori per lasciare spazio alle comunità e alla sussidiarietà. «Penso sia stata un’ottima idea ma che sfortunatamente è stata implementata nel modo sbagliato», racconta a Tempi Philip Booth, economista e professore alla St Mary’s University di Twickenham. Booth accusa i conservatori di David Cameron di non essere stati in grado di strappare dalle mani dello Stato il welfare ed i servizi scolastici e sanitari, come avevano promesso, per rimetterli alla società e alle comunità. Peccato, anche perché quell’idea «all’inizio aveva convinto buona parte della destra e affascinato anche alcuni a sinistra, convinti che il volontariato potesse dare risposte a questioni davanti alle quali lo Stato è impotente o incompetente». C’era molto della dottrina sociale cattolica nella Big Society, come ad esempio l’idea che la società dipenda non solo dallo Stato ma anche dalla famiglia, dalla Chiesa stessa e dalle organizzazioni del terzo settore. «Il centro della Big Society era proprio la convinzione che ad un arretramento dello Stato dovesse corrispondere l’avanzamento della società e delle comunità, degli individui pronti a prendersi cura del loro vicino».
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Principi della dottrina sociale cattolica come la sussidiarietà si ritrovano anche nella Shared Society, l’idea – un po’ fumosa e poco chiara – proposta dall’attuale premier Theresa May subentrata nel luglio scorso proprio a David Cameron. «Theresa May è davvero impenetrabile su molte questioni», dice Booth. «È una conservatrice pragmatica, pronta a plasmare la sua dottrina seguendo il corso degli eventi». Lei ha promesso di trasformare la Gran Bretagna in un paese che funzioni per tutti, senza lasciare da parte nessuno, prendendosi cura degli ultimi e dei dimenticati. Secondo alcuni osservatori britannici ciò che differenzia Big Society e Shared Society è il target: la prima si focalizzava di più sui poveri, la seconda sulle classi medio-basse, quelle che, dice May, sono state lasciate indietro dalla globalizzazione e che hanno fatto pendere la bilancia al referendum del giugno scorso verso l’uscita dall’Unione Europea. Il professor Booth a tal proposito sottolinea la difficoltà di capire le intenzioni del premier ma di una cosa si dice certo: «Non deve essere lo Stato a dover dare delle risposte».
Booth sostiene che il referendum Brexit abbia risolto un tema che da troppo tempo era al centro del dibattito, dando la possibilità al governo di affrontare finalmente alcuni importanti temi economici – l’apertura, il libero scambio e le liberalizzazioni – ma anche la volontà del Regno Unito di prendere le redini del liberalismo a livello internazionale, sfruttando la situazione negli Stati Uniti.
«Non penso che il Regno Unito debba sfruttare la Brexit per diventare un paradiso fiscale», spiega. «Certamente potrà far leva su un ambiente fiscale e legislativo più favorevole per le imprese al fine di attrarre nuovi investimenti. In definitiva penso che dare spazio alle aziende debba essere un obiettivo del governo britannico a prescindere dalla Brexit».
Cosa deve fare Trump
Come l’economista ha scritto in un suo commento sul quotidiano finanziario londinese City A.M. e ribadito nel suo colloquio con Tempi, gli accordi commerciali sono diventati «incredibilmente complessi» a causa di barriere commerciali legate alla regolamentazione. È il caso ad esempio delle leggi che limitano gli alimenti geneticamente modificati e che vengono utilizzate per impedire le importazioni. Un sistema complesso che «crea regimi di regolamentazione a beneficio degli operatori storici e delle grandi imprese e che danneggia i singoli». Lasciandosi alle spalle l’Ue, il governo di Londra potrà fare a meno di accordi «che ricordano l’Enciclopedia Britannica» lasciando ai consumatori libertà di scelta, togliendo potere alle élite e diventando un esempio nel commercio internazionale anche per paesi come l’India e le nazioni africane che dall’apertura possono solo guadagnarci.
Si è detto e scritto molto circa il ritorno dell’Anglosfera dopo la vittoria del Leave nelle urne del Regno Unito lo scorso 23 giugno e l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca. Come scrisse qualche tempo fa l’economista euroscettico Tim Congdon sullo Spectator, «le nazioni di lingua inglese si distinguono per un insieme di istituzioni e caratteristiche che le altre nazioni avanzate d’Europa, in ultima analisi, non hanno: una tradizione di common law, rispetto per la proprietà privata, governi eletti con regolarità, ed una cultura che alimenta la società civile e l’impresa imprenditoriale». Nel solco del rapporto speciale tra i due paesi ai tempi del presidente Ronald Reagan e del primo ministro Margaret Thatcher, Trump e May hanno l’opportunità di ridisegnare la geografia e le relazioni internazionali in nome del libero mercato e tornare ad esserne ambasciatori nel mondo.
Ma entrambi i paesi devono fare i compiti a casa specie in materia fiscale, dice Booth nella sua chiacchierata con il nostro settimanale, certo che la stella polare non possa che essere rappresentata da un passo indietro dello Stato a favore della libertà dei cittadini. Negli Stati Uniti il primo problema è la spesa pubblica, cresciuta di quasi il 40 per cento del Pil durante i sedici anni delle amministrazioni di George W. Bush e Barack Obama. «Trump dovrebbe per questo mettere in cima alla sua lista delle cose da fare l’aumento delle entrate contemporaneamente all’abbassamento delle aliquote fiscali. E ciò negli Stati Uniti si traduce nella riforma delle imposte societarie».
Perché secondo l’economista il complesso regime fiscale sulle imprese ha spinto le aziende a quel tipo di comportamento che ha alimento quel sentimento anti-business ed anti-establishment che ha portato Trump alla Casa Bianca. «Abbassare le tasse sulle imprese, oggi al 39 per cento – quasi il doppio del Regno Unito dove si attestano al 20 – porterebbe le aziende a trasferirsi negli Stati Uniti e ad investire di più nel paese. Così arriverebbero anche maggiori entrate nelle casse del Tesoro».
Le finanze britanniche sono nelle mani di Phillip Hammond, come il primo ministro May schierato contro la Brexit durante la campagna referendaria dello scorso anno. Buona parte dei suoi problemi, sottolinea Booth, sono riposti in un codice fiscale da oltre 17 mila pagine: un’enormità specie se confrontate con le 276 pagine del codice dell’ex colonia Hong Kong o, ancor peggio, con le poco più di 8 mila parole della Costituzione americana comprensiva di Bill of Rights e tutti gli emendamenti successivi. Una complessità eredità dal predecessore al Tesoro, George Osborne, che nei suoi anni di cancellierato sotto il governo di David Cameron ne ha raddoppiato la lunghezza. «La semplificazione di tale sistema fiscale, che spesso con i suoi cavilli si dimostra un ostacolo soprattutto per le famiglie ed in particolare per quelle monoreddito, deve partire dagli immobili abolendo tutte le tasse e sostituendole con un’unica tassa annuale basata sul cosiddetto fitto figurativo», dice Booth. «Così facendo si renderebbero le case più convenienti per chi compra ma più costose per chi le possiede, trasferendo il carico fiscale dall’affittuario (tendenzialmente più povero) al proprietario (tendenzialmente più ricco). Potrebbe essere una decisione poco gradita ad alcuni ma rappresenterebbe un passo importante verso un sistema fiscale più semplice ed efficiente».
Ma non è tutto. L’Institute of Economic Affairs di Londra, di cui Philip Booth è senior academic fellow, ha proposto a novembre, a pochi giorni dall’Autumn Statement – la Finanziaria d’autunno – del cancelliere Hammond, l’abolizione di 20 tasse tra cui quelle sulle successioni, sugli autoveicoli, sull’alcol, il tabacco ed il gioco d’azzardo oltre all’imposta di bollo.
La tentazione potrebbe essere, in tempi di populismo e protezionismo, quella di aumentare la spesa pubblica per dare risposte rapide alla protesta e ai dimenticati di cui May ha promesso di prendersi cura. Ma secondo il professor Booth la ricetta vincente sta, al contrario, in un passo indietro dello Stato a favore della libertà degli individui e delle energie che alimentano le comunità.
Foto Shutterstock/ Ansa
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