La preghiera del mattino
Cosa manca all’idea del “grande partito conservatore” di Berlusconi
Sulla Nuova bussola quotidiana Luca Volontè scrive: «I Balcani rimangono un campo minato nel quale proprio i Paesi occidentali, in particolare Europa e Stati Uniti, si muovono senza alcuna prudenza e diplomazia. Aver accettato la richiesta ufficiale di adesione alla Ue da parte del Kosovo il 15 dicembre, nel pieno delle tensioni già crescenti tra la popolazione serba ed albanese e tra Kosovo e Serbia, è stato un semplice atto incendiario da parte delle istituzioni europee. Di più, le condanne dei terroristi e carnefici kosovari iniziate al Tribunale dell’Aja la scorsa settimana, il 16 dicembre è stata emessa la condanna a 26 anni di un ex comandante dell’Esercito di Liberazione del Kosovo (Uck) Salih Mustafa, non faranno che accrescere le tensioni in futuro e riacutizzeranno le ferite di un recente passato terribile e sanguinario. Nei prossimi mesi ci sarà il processo all’ex Presidente del Kosovo e ex Comandante Uck Hashim Thaçi che rischia pene ben più gravi, con conseguenze anche di ordine pubblico molto pericolose. Bruxelles e Washington usano lo spettro di Mosca, accusando Belgrado e la Serbia di spalleggiare Putin, pur di evitare una seria assunzione di responsabilità diplomatica e politica nella soluzione dei problemi serbo-kosovari. L’etnia albanese, in maggioranza musulmana, considera il Kosovo come il proprio Paese e, in questo, il sostegno incondizionato dell’occidente alle mire di Pristina e Tirana di una ‘Grande Albania’ che includa il Kosovo, è un suicidio culturale ed identitario totale per l’Europa, un passo inacettabile per la Serbia cristiana ortodossa. Avanti così e questa manifesta ignoranza e inadeguatezza politica occidentale ci porterà alla guerra nei Balcani, non solo tra Serbia e Kosovo, ma anche all’interno della Bosnia Erzegovina tra le diverse regioni ed etnie».
Oltre che a schierarsi a favore del giusto, cioè innanzi tutto impegnarsi a difendere gli Stati liberaldemocratici dai soprusi di regimi autoritari e di neoimperialismi, l’Occidente dovrebbe cercare di stare sempre anche dalla parte del saggio, comprendendo per esempio che nei Balcani, regione che come diceva Winston Churchill produce più storia di quanta ne possa digerire, ci si deve muovere con molta cautela.
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Sul Sussidiario Giulio M. Salerno scrive: «Le due “grandi riforme” proposte prima dal centro-destra nel 2006, e poi dal centro-sinistra nel 2016, sono state bocciate dai referendum popolari. Entrambe avevano respinto i modelli più netti di democrazia governante, ossia il presidenzialismo e il semi-presidenzialismo; proponendo il rafforzamento dell’esecutivo collegato alla maggioranza parlamentare scaturita dalle elezioni politiche, avevano preferito la strada più morbida del cosiddetto parlamentarismo razionalizzato. Eppure ambedue le riforme hanno egualmente sollevato le medesime aspre critiche sull’eccessiva “verticalizzazione” del potere che si intendeva realizzare, a partire dall’insufficienza dei necessari bilanciamenti. Insomma, se i due precedenti tentativi sono falliti soprattutto perché chi vi si opponeva ha avuto giuoco facile nel diffondere la paura del “super-Presidente” del Consiglio, è questa la vera sfida da affrontare. Non si tratta tanto di scegliere il modello migliore tra quelli teoricamente disponibili, ma di elaborare una proposta largamente accettata perché capace di incorporare la nuova democrazia decidente in un sistema equilibrato di pesi e contrappesi».
La riflessione di Salerno sul Sussidiario è particolarmente utile e va integrata anche con un riferimento al fallimento della Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema. Per riformare una Costituzione tanto condizionata da una Guerra fredda che non c’è più, si deve comprendere bene i sentimenti profondi e articolati del nostro popolo: la scarsa attitudine delle nostre élite a consentire una vera contendibilità del potere politico, sentimento che esprime la fragilità di una grande borghesia con visione nazionale; e un sentimento più municipalistico che nazionale nei ceti popolari, con un forte istinto ribellistico in quelli meridionali. Creare un nuovo equilibrio istituzionale deve dunque parlare alle èlite rassicurandole che maggiore decisionalità non significherà totale discrezionalità del potere politico, deve parlare alle popolazioni del Nord che chiedono maggiore autonomia locale e deve offrire una visione ai ceti popolari del Sud sul loro peso nello Stato nazionale. Come si è visto con D’Alema nel 1998, con Franco Bassanini nel 2001, con Silvio Berlusconi nel 2005 e con Matteo Renzi nel 2014, non bastano gli slogan per costruire quel consenso popolare necessario a riformare strutturalmente una Costituzione che pur non funziona.
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Su Tgcom 24 Mediaset Silvio Berlusconi dice: «”Un grande partito conservatore sul modello americano. È un mio antico sogno fin dal 1994. Sarebbe un passo importante verso il compimento della democrazia bipolare in Italia. Un partito di questo tipo dovrebbe essere qualcosa di simile al Partito Repubblicano negli Stati Uniti, quello di Lincoln e di Eisenhower, di Reagan e di Bush”. Lo ha detto Silvio Berlusconi. Per il leader di FI “dovrebbe essere un partito plurale, al cui interno le idee liberali, cristiane e garantiste, che noi rappresentiamo, dovrebbero avere un ruolo fondamentale”».
Ormai una parte ampia dell’elettorato più che i partiti esistenti sceglie alcuni valori di orientamento fondamentale: conservatori-liberali-popolari a destra; socialisti, liberal ed ecologisti a sinistra. In questo senso la presa di posizione di Berlusconi è razionale ma va accompagnata da una reale accettazione della partecipazione dei cittadini conservatori-liberali-popolari alle scelte del loro schieramento. L’idea che tutto si risolva con le leadership è ormai logorata. Si tratta di costruire vere “comunità di destino” nelle quali chi partecipa possa esprimere in modo decisivo la propria voce. Per esempio senza primarie per scegliere i candidati sindaci, governatori ma anche parlamentari mi pare che non si vada da nessuna parte.
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Sul Post Luca Misculin scrive: «Allora Panzeri era uno dei due parlamentari europei del Pd in carica da più tempo: la sua candidatura a capogruppo fu considerata un passaggio inevitabile. In un altro periodo storico probabilmente sarebbe stato eletto. Ma nel 2014 il segretario del partito era Matteo Renzi, che alle elezioni europee aveva portato il Pd vicino al 41 per cento dei voti, e la corrente della sinistra “storica” di cui Panzeri faceva parte e di cui il leader informale era Massimo D’Alema era finita in minoranza. Alla fine la votazione interna premiò Patrizia Toia, l’altra parlamentare europea del Pd in carica dal 2004, molto nota negli ambiti cattolici progressisti e decisamente più vicina a Renzi».
Naturalmente non è possibile giustificare in alcun modo eticamente e politicamente la scelta di corrompere parlamentari europei perché appoggino gli interessi di uno Stato straniero. Però, senza assolvere moralmente nessuno, non è inutile sforzarsi di capire come persone che hanno dietro le spalle una vita di esemplare impegno politico e sindacale come Panzieri si trasformino in corruttori per conto di questo o quello sceicco. Capire certi processi è indispensabile per ragionare su come si possa superare le cause di nuovi fenomeni degenerativi. In questo senso se tu fai una campagna non contro le “idee” ma contro le “persone” che diventano cose da “rottamare” come ha fatto Matteo Renzi ieri e come sta facendo Dario Franceschini adesso, dissolvi la comunità politica rappresentata dal tuo partito e spingi i singoli alla disperazione, a considerare che ormai non esiste più alcun vincolo di lealtà, di rispetto, che non viva più alcuna morale solidale a cui riferirsi. E così tutto diventa possibile. La degenerazione di una sinistra fondata essenzialmente sul potere invece che sulla comunità, produce i mostri che da questa scelta derivano.
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