In questi giorni di aspri litigi sul destino del Pdl, tirati per la giacchetta, siamo finiti per apparire più falchi che pacifici giornalisti. Vale allora la pena di ribadire, al di là di uscite pubbliche un po’ infelici, che noi qui rimaniamo fedeli all’unità. Sia come fattore di ogni sana compagine umana. Sia come valore politico.
Perciò, punto primo, ci auguriamo che dal 16 novembre esca un centrodestra unito. Fatto di gente che si è lasciata dietro le spalle ogni logica di autodissoluzione nel volo di “stracci” e “materassi”. E che invece di accapigliarsi nella prospettiva di regalare il paese alle sinistre sia nella posizione di contenderlo, il paese, alle sinistre. Sia a quella rappresentata da Renzi (che sulle prime sembrò un innovatore e adesso si rivela un simpatico illusionista). Sia a quella elitista e antipopolare che speculando sui drammi della recessione ha fatto delle manette e delle tasse il martello per inchiodare l’Italia alla conservazione e a demagogie distruttive.
Punto secondo, diamo un’occhiata a un sondaggio tra gli imprenditori americani svolto dalla Camera di commercio Usa in Italia. Quali sono, a detta degli investitori, i due maggiori fattori di «forte svantaggio competitivo» italiani? La pubblica amministrazione (79 per cento degli intervistati) e il sistema giudiziario (70 per cento).
Dunque, o si fanno riforme vere per garantire l’effettiva “stabilità” e “ripresa” del paese. Oppure il governo Letta rimane oggettivamente debole.
Dopo di che, viva il metodo politico dell’unità e del negoziato. Lo fa la Merkel che con la Cdu ha stravinto le elezioni e governa un paese che va come un treno. Perché non dovrebbero farlo politici e partiti che non hanno i numeri per governare da soli, in un paese che sta sotto un treno?