Pubblichiamo l’articolo che uscirà sul numero 32-33/2012 di Tempi.
Immaginate se sui giornali italiani apparisse in prima pagina una foto scattata nella biblioteca di un grande carcere italiano, tipo Rebibbia a Roma o quello di Opera alle porte di Milano. Immaginate che la foto mostri, seduti a tavoli disposti sui tre lati di un quadrilatero aperto, da una parte i capi supremi di Cosa Nostra, sia i palermitani che i corleonesi, e quelli della camorra, sia del clan dei Casalesi che della Nuova camorra organizzata; di fronte a loro una delegazione dell’Unione Europea, guidata dal presidente José Manuel Barroso; e nel lato che separa i primi due monsignor Angelo Bagnasco, al tempo in cui era ordinario militare, e un ex politico tipo Claudio Martelli o Irene Pivetti. E sotto l’articolo spiegasse che è stata conclusa una tregua nelle guerre di mafia e di camorra per il controllo del territorio in cambio di un miglioramento delle condizioni di detenzione, come premessa di una soluzione a lungo termine del problema della criminalità nell’Italia meridionale; che mafiosi e camorristi hanno presentato una lista di richieste, fra le quali quella di godere dei benefici carcerari negati dal 41 bis e quella di cancellare la legislazione premiale per i criminali che collaborano alle indagini. Beh, anche in presenza di vigorose smentite da parte dei ministri della Giustizia e degli Interni, nonché del presidente del Consiglio e del capo dello Stato, e anche se Barroso e la Commissione europea esprimessero pubblico apprezzamento per l’iniziativa, non c’è dubbio che i giornali lancerebbero grida di scandalo di fronte a un palese episodio di trattativa Stato-mafia, e che procure di chiara fama lancerebbero indagini e invierebbero avvisi di garanzia.
Ebbene, quella che in Italia è un’ipotesi del tutto irrealistica e che metterebbe in grossi guai anche chi solo si azzardasse a formularla come auspicio, è diventata realtà in un lontano paese delle Americhe: il 12 luglio nel carcere di La Esperanza, poco fuori da San Salvador, capitale di El Salvador, si sono seduti al tavolo del negoziato il vescovo castrense monsignor Fabio Colindres, l’ex deputato del Fmln (l’antica guerriglia di estrema sinistra oggi partito politico di governo) Raúl Mijango, una delegazione dell’Organizzazione degli Stati americani guidata dal suo segretario generale José Miguel Insulza e i più famosi dei capi delle “maras”, le organizzazioni criminali nate negli anni Ottanta e Novanta come bande giovanili fra i latinoamericani emigrati negli Stati Uniti, oggi spina dorsale dello spaccio di droga nei paesi dell’America centrale nonché padroni assoluti delle attività di estorsione e dei sequestri di persona. Gli incontri attuali sono stati preceduti dal trasferimento dei grossi calibri della Salvatrucha e delle due fazioni del Barrio 18 (i Revolucionarios e i Sureños), le tre entità che da anni si combattono spietatamente nel mentre che vessano la gente comune, dal carcere di massima sicurezza di Zacatecoluca (soprannominato Zacatraz) a strutture a regime più flessibile. E anche se le autorità negano, è ovvio a tutti che una trattativa e uno scambio ci sono già stati. Gente comune, alcuni politici, criminologi e uomini di Chiesa esprimono critiche e dubbi intorno a quello che sta avvenendo. Ma con una certa compostezza. E soprattutto nessun pm si azzarda a intervenire. Per una semplice ragione: da quando, il 9 marzo scorso, i capi delle maras non sono più sottoposti al carcere duro, il tasso di omicidi in El Salvador, fino a quel momento il più alto del mondo, è diminuito di due terzi, da 14 (quattordici!) omicidi al giorno in un paese di 6,2 milioni di abitanti a 4-5. Il 14 aprile El Salvador ha celebrato il primo giorno della sua storia di Stato indipendente (dal 1821) trascorso senza omicidi.
L’invasione dei giovani criminali
Prima della svolta delle maras salvadoregne, la regione dell’America centrale formata dai tre Stati confinanti di El Salvador, Honduras e Guatemala costituiva l’area del mondo dove gli esseri umani corrono il maggior rischio di perdere la vita in modo violento, addirittura più che in Afghanistan o in Iraq. Grandi poco meno dell’Italia se sommati insieme, con una popolazione totale che è meno della metà di quella italiana, i tre Stati occupavano fino a poco tempo fa rispettivamente il primo, il secondo e il quinto posto nella classifica mondiale del numero di omicidi ogni 100 mila abitanti (71 El Salvador, 67 l’Honduras e 46 il Guatemala). In numeri assoluti, si parla di 17 mila assassinî all’anno: in Italia i morti ammazzati sono poco più di 600 all’anno.
Che la disastrosa statistica almeno in El Salvador sia legata principalmente alle attività delle maras, lo dimostra l’effetto che ha avuto la tregua ordinata dal carcere dai capi della Salvatrucha e del Barrio 18. Il mese di gennaio si era chiuso con 411 omicidi, febbraio con 402; ma le prime tre settimane di marzo hanno visto una caduta verticale: “appena” 186 morti ammazzati. E lo dimostra anche la storia. Come abbiamo detto, le maras che oggi furoreggiano in America centrale e in Messico (dove si offrono a servizio dei grandi cartelli del narcotraffico) sono nate negli Stati Uniti, principalmente a Los Angeles, fra i latinos immigrati negli anni Ottanta. La Salvatrucha è nata nel distretto di Pico-Union, che si sviluppa attorno all’incrocio fra Pico Boulevard e Union Avenue; la Barrio 18 è sorta, come dice il nome, nei pressi della 18th Street, una via del distretto di Rampart. All’inizio del decennio scorso le autorità statunitensi hanno preso a espellere quanti più “mareros” potevano verso i paesi d’origine. E i tassi di criminalità in America centrale, alimentati dall’ondata di ritorno di giovani divenuti delinquenti esperti, si sono impennati. El Salvador è passato dai 2.346 omicidi del 2002 ai 4.374 del 2011; la popolazione carceraria è esplosa da 11.451 internati nel 2003 a 25.400 nel 2011.
Il fallimento del pugno di ferro
Quando è salito al potere nel 2009, il presidente Mauricio Funes – nonostante fosse il candidato del Frente Farabundo Martí, la guerriglia comunista degli anni 1979-1992 trasformata in partito politico legale dopo gli accordi di pace di Chapultepec – ha sposato la linea della tolleranza zero nei confronti delle maras, attenuata da qualche misura di politica sociale. Ha nominato due generali a capo del ministero della Giustizia e sicurezza e alla direzione generale della polizia civile; ha militarizzato le carceri e le attività di polizia di molte località; ha inasprito le condizioni di detenzione dei capi delle maras e ha fatto votare una legge che criminalizza anche la semplice appartenenza a una gang. La situazione, però, è peggiorata. E l’idea di trattare sottobanco coi capi delle maras per ridurre il tasso di omicidi nel paese sarebbe maturata all’interno dello stesso ministero della Giustizia. Monsignor Colindres, che insieme all’ex Fmln Raúl Mijango ha mediato la tregua fra le bande, racconta una storia un po’ diversa: «Ho ricevuto richieste da parte di prigionieri e di loro familiari per ottenere un migliore trattamento carcerario. Ho chiesto loro se potevano immaginare di mettersi d’accordo per far diminuire il tasso degli omicidi nel paese. Hanno compreso che era un’occasione per impegnarsi a far diminuire la delinquenza e che le loro condizioni in carcere potevano migliorare. Così sono cominciati gli incontri». Il vescovo, le autorità e i capi delle maras negano decisamente che ci sia stata una trattativa e uno scambio di impegni fra le parti, ma tutti hanno compreso che questo fa parte del gioco. Gli ergastolani hanno avuto la libertà di diffondere comunicati molto nobili. «Siamo consapevoli che abbiamo causato un profondo danno sociale», scrivono, «ma per il bene del paese, delle nostre famiglie e di noi stessi, chiediamo che ci sia permesso di contribuire alla pacificazione di El Salvador, che non è solo vostro, ma anche nostro».
Dopo la visita di Insulza c’è stata un’accelerazione. I capi delle maras hanno consegnato una lista di richieste ai mediatori, hanno manifestato la loro disponibilità a trasformare la tregua fra le bande in un processo di pace vero e proprio, hanno ordinato ai loro uomini un disarmo simbolico per dimostrare che fanno sul serio, ma hanno anche chiesto che a questo punto lo Stato riconosca apertamente l’esistenza della trattativa condotta dagli attuali mediatori (monsignor Colindres e Mijango). Le maras fanno richieste pesanti, come la fine del carcere duro, delle operazioni di polizia non legate alla flagranza di reato, della partecipazione delle forze armate alle operazioni di polizia e di sicurezza carceraria, e inoltre l’abrogazione del reato associativo per chi fa parte di una mara e della legislazione premiale per i pentiti. Però chiedono anche che sia valorizzata la funzione riabilitativa del carcere, con l’introduzione di attività produttive, educative e culturali, e «piani di reinserimento sociale e produttivo, borse di studio, crediti, formazione professionale e opportunità d’impiego per i membri che si trovano in libertà e per i familiari dei membri reclusi nei penitenziari». Soprattutto i capi delle maras non chiedono amnistie né indulti per sé, con l’eccezione del caso dei più anziani e dei malati terminali.
E ora anche l’Honduras ci pensa
Non tutti in El Salvador sono entusiasti della trattativa Stato-maras. Politici di Arena (partito di destra all’opposizione) e anche alcuni sacerdoti impegnati nella pastorale giovanile esprimono il timore che si vada verso accordi scellerati, che permetterebbero a criminali e politici di condividere i profitti del narcotraffico in un clima di falsa riconciliazione nazionale. Invece nei paesi vicini si guarda con interesse all’esperimento. Il vescovo di San Pedro Sula, la città più industrializzata ma anche più violenta dell’Honduras, ha suggerito al governo di imitare la politica intrapresa in El Salvador. Monsignor Rómulo Emiliani da tempo cerca di creare un centro di recupero per giovani disposti ad abbandonare la criminalità, ma senza successo per ragioni finanziarie. Intanto il governo salvadoregno ha avviato un censimento dei mareros e dei loro familiari, in vista di politiche sociali mirate che potrebbero essere parte del processo di pace. La cifra più credibile parla di 100 mila membri delle maras, che coi familiari arrivano a 3-400 mila persone: praticamente il 5 per cento della popolazione.