
Quindici anni dagli accordi di pace. Ma in Ulster soffiano ancora venti d’odio
Quindici anni fa esatti veniva firmato il Good Friday Agreement, l’accordo che sanciva la fine dei Troubles che avevano devastato il Nord Irlanda a partire dagli anni Sessanta. L’Ulster da allora ha abbracciato uno status di pace relativa, le tensioni tra cattolici e protestanti sono andate diminuendo, l’Ira ha ufficialmente deposto le armi. Ma la tranquillità è solo apparente e, specie nei quartieri più poveri di Belfast, odi e rivalità soffiano ancora forte, esplodendo a volte in riots e violenze. Riproponiamo il reportage dalla capitale nordirlandese apparso sul numero di Tempi uscito in edicola lo scorso febbraio. Erano i giorni della flag protest, la violenta protesta che ha portato centinaia di famiglie lealiste in piazza per protestare contro la rimozione dell’Union Jack dal Belfast City Hall, con costanti scontri contro la polizia e centinaia di fermi.
Cappuccio blu abbondante sulla testa, sciarpa rossa tirata su fino al naso. Si nasconde così la verde età della prima linea dei manifestanti lealisti: giovani e minacciosi avanzano dalle zone orientali della città verso il Belfast City Hall, cuore della capitale nordirlandese. Dietro li segue il resto della loro famiglia, davanti li attendono decine di poliziotti in assetto antisommossa e una schiera di reporter: obiettivo stretto in mano e casco da bici agganciato alla tracolla, nel caso qualche sasso inizi a volare. Non servirà per fortuna questo sabato, uno dei pochi degli ultimi due mesi in cui la “Flag Protest” non si è trasformata in violenza: scene che si ripetono dal 3 dicembre scorso, quando il municipio cittadino votava la rimozione della Union Jack, la bandiera britannica, dalle aste in cima al suo frontone. Il vessillo di sua Maestà potrà sventolare solo in alcuni giorni prestabiliti, diciotto per la precisione, e non più tutto l’anno, in linea per altro con il parlamento nazionale di Stormont. Da quel 3 dicembre le cicatrici mai totalmente rimarginate delle vie di Belfast sono tornate a sanguinare, con manifestazioni che spesso finiscono in guerriglia: da una parte la polizia, dall’altra le squadriglie unioniste, prevalentemente ragazzini mossi a meraviglia dai loro fratelli più grandi, se non addirittura da qualche leader paramilitare. Le cifre parlano di un clima sinistro, diafano ma sempre incombente, con pazze escalation durante i fine settimana: 128 sono i poliziotti feriti ad oggi, mentre gli arrestati sono 181, di cui quasi due terzi hanno meno di 21 anni. Per non parlare delle perdite economiche: la paura ha trasformato sotto Natale il centro in un luogo spettrale, con un calo del 40 per cento degli incassi per i commercianti.
Eppure la rabbia lealista non sembra intenzionata a fermarsi. «We will not be the generation to fail Ulster», gridano i loro striscioni. Il vessillo britannico ammainato scopre le paure di una fetta di società che per decenni ha comandato le sei contee strappate all’unificazione irlandese, e ora vede la controparte nazionalista guadagnare terreno. A dicembre un censimento sanciva un calo del 10 per cento in 10 anni dei cittadini che si professano protestanti: non sono più la maggioranza assoluta ma si fermano al 48 per cento, poco distanti dal 45 per cento dei cattolici, aumentati di un punto.
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Ma dietro le proteste c’è l’eredità pesantissima dei Troubles, che ancora divide la società in “noi” e “loro”. Questo sebbene 15 anni fa venivano firmati gli Accordi di pace del Venerdì Santo, che misero fine a uno dei conflitti più sanguinosi e lunghi della recente storia dell’Occidente. Da allora la città è cambiata ed è evoluta: il centro si è popolato di ristoranti, pub, discoteche, club, centri commerciali e negozi, inseguendo la normalità tipica delle cittadine britanniche. Nuovi quartieri moderni hanno impreziosito la sponda nord-est del Lagan, con palazzi prestigiosi come il museo del Titanic, inaugurato lo scorso marzo a cento anni dall’affondamento del transatlantico che proprio qui fu costruito. Il numero di turisti presenti ogni anno in città cresce di continuo: tra Falls Road e Shankill, quartieri diventati tristemente famosi nei turpi anni dei Troubles, è un continuo viavai di pullman e taxi, in fila per far fotografare ai turisti gli enormi murales che colorano quelle strade.
E i muri restano in piedi
Ma i volti che si incrociano lungo i marciapiedi di Belfast ovest spiegano le sofferenze di una città segnata da povertà e disoccupazione, e le peace lines, i muri che per lunghi tratti dividono le zone dei cattolici da quelle dei protestanti, sono ancora in piedi, e nessuno sembra intenzionato a rimuoverli. Troppa ancora la diffidenza verso chi sta dall’altra parte: lo scorso anno un sondaggio rivelava che almeno il 69 per cento di chi vive a ridosso dei muri è convinto che non sia ancora giunto il momento di tirar giù quelle lunghe cortine di mattoni, reti e lamiera. «Non credo che sia una buona proposta», spiega un residente all’imbocco di Bombay Street, non lontano da Falls Road. Approfitta di un sabato mattina di sole per pulire i vetri di casa e sistemare il giardino: «Ci sentiamo molto più tranquilli con i muri: prima che dividere, ci difendono. Ha visto quello che sta succedendo con queste proteste per la bandiera? A novembre la situazione pareva tranquilla. È bastato poco per farla precipitare».
La coesistenza delle due comunità rimane difficile, sebbene di passi avanti ne siano stati fatti, ed enormi: «Il conflitto, inteso come uso sistematico di violenza, è certamente finito col Belfast Agreement. L’opinione pubblica ha ormai accettato una società costruita sul pacifico sviluppo di una città per tutti», spiega a Tempi Noel Treanor, vescovo di questa diocesi dal 2008. «Ma in entrambe le comunità c’è chi non ha mai voluto riconoscere questo accordo. Sul fronte repubblicano resiste ancora la voce di chi è scontento: ciò per cui si è lottato a lungo non è stato effettivamente raggiunto. Dall’altra parte, invece, i movimenti unionisti si fanno sempre più ferventi: tanta gente vede come un cambiamento troppo radicale l’accordo e alcune sue conseguenze». Una ad esempio è la Patten Commission, ossia l’introduzione di un corpo di polizia condiviso da entrambe le comunità. «Vedono tutto ciò come un lento e irreversibile avanzare della vittoria del fronte repubblicano. Per questo sono così incattiviti dalla rimozione della bandiera: non è un problema nuovo, bensì l’apice di un’epoca in cui una comunità si è sempre avvalsa del diritto assoluto e totale di dominare sull’altra. Sbagliano i lealisti se credono che un’avanzata del fronte repubblicano possa essere un pericolo per la loro storia». Mentre parla il vescovo riceve un sms da un sacerdote della diocesi: un oggetto sospetto è stato ritrovato fuori da una chiesa della città. Si teme sia una pipe bomb. «Sarebbe la seconda in pochi giorni. Ieri ne è stata trovata un’altra a Ballyclare, sempre all’esterno di una chiesa».
Così la tensione è sempre ai livelli di guardia, con venti d’odio che soffiano su una situazione economica di certo poco brillante: il business locale attrae a fatica gli investitori internazionali, spesso impensieriti dal continuo alternarsi di violenze. «La nostra economia è ancora molto fragile, in gran parte supportata da quella britannica, e per questo molto artificiosa», spiega monsignor Treanor. «Questa deve essere una delle preoccupazioni primarie dei nostri politici: costruire uno sviluppo del sistema produttivo che sia valido e saldo, e aperto a tutti. Tra le comunità lealiste le garanzie formali di impegno lavorativo sono molto poche. Anni fa queste persone avevano la sicurezza di un’occupazione, poiché ereditavano un posto in fabbrica dal padre, o nei cantieri navali, storicamente aperti solo ai protestanti. Tutto questo ora sta cambiando, e la gente fatica ad adattarsi». Ma non basta la crisi economica e sociale per spiegare la rabbia e gli incidenti di cui spesso sono vittime i cattolici: «È puro odio settario, xenofobo. È l’espressione di una mitologia malata, specie tra la gente più matura. I ragazzi ereditano tutta questa miopia e ignoranza dai propri genitori, come accade ovunque nel mondo. Non capiscono e non sono stati educati per farlo».
Lo sa bene padre Michael Sheehan, sacerdote della chiesa di Saint Patrick, seconda parrocchia della città per grandezza: 7 mila anime schiacciate tra il centro e le vie lealiste del nord-ovest di Belfast. Shankill Road sta a due passi, e durante la “Parade Season”, la lunga stagione di parate che celebrano la storia dell’Irlanda del Nord, da lì arrivano bande musicali e cortei. Le ultime accese controversie risalgono al 12 luglio di un anno fa: per celebrare il Twelfth, ossia la vittoria del re protestante Guglielmo d’Orange sul cattolico Giacomo II nella battaglia del Boyne (1690), una banda si è fermata davanti all’ingresso di Saint Patrick, intonando canzoni anticattoliche. I filmati sono stati pubblicati su Youtube. Una provocazione difficile da mandare giù. «Davanti a questa chiesa passano almeno 35 parate ogni anno, che prima scendono in città poi tornano indietro», racconta padre Michael. «La gente del quartiere è stanca: se Belfast davvero sta cambiando, queste manifestazioni di odio non possono ripetersi. Abbiamo provato a incontrare i rappresentanti degli ordini lealisti: solo un gruppo ha accettato di parlare». E la Flag Protest ha reso ancora più difficile il dialogo: «Qualche mese fa non mi sarei fatto problemi ad andare in pieno giorno nei quartieri protestanti come Shankill o Tiger Bay. Ora ho paura: se devo girare, specie alla sera, esco in macchina, e spesso capita di dovermi coprire il collarino con la sciarpa».
L’aumento dei suicidi
Ma c’è un’altra piaga che attanaglia Belfast, e che colpisce tanto i lealisti quanto i repubblicani. La crescita dei suicidi. Se ne indovina la portata dal gran numero di cartelli lungo le strade che invitano a rivolgersi ai tanti centri d’aiuto specializzati. «È un triste aumento, diffuso su tutto il territorio, con punte davvero preoccupanti nei quartieri più poveri». A parlare è Karen Bradley, psicoterapeuta dell’associazione Lighthouse. La charity è nata nel 2003 proprio per far fronte al dilagare di questo cancro, specie nelle zone nord e ovest di Belfast. Si lavora su ogni fascia d’età: adulti, giovani lavoratori e, purtroppo, anche tantissimi teenager. «Gli allarmi arrivano per lo più da quelle zone fortemente colpite da degrado e disoccupazione, dove crescono anche le dipendenze da alcol e droga. Uno dei fattori che più preoccupa è la situazione di “post-conflict” che il Nord Irlanda sta vivendo: siamo in un momento di transizione, siamo in pace ma non del tutto». Ha fatto notizia la scorsa estate una ricerca del professor Mike Tomlinson della Queen’s University secondo la quale dal 1998 ad oggi i tassi di suicidio sono raddoppiati, soprattutto tra gli uomini. «Durante gli anni dei Troubles – continua la Bradley – avevamo numeri molto bassi: la gente aveva molta più fiducia in se stessa, la minaccia del nemico generava maggiore unità all’interno delle comunità». Con il cessate il fuoco invece si è scatenato il “transgenerational trauma”: i figli degli anni bui del Nord Irlanda vedono che tutto il male fatto e patito dai propri padri non è riuscito a cambiare la realtà specifica di Belfast, dove le divisioni permangono, insieme alle difficili condizioni di vita, alle scarse prospettive per i giovani, ai magri frutti del processo di pace. Emarginazione e depressione aumentano di conseguenza.
C’è un passato denso di dolori difficile da cancellare. E c’è un futuro da scrivere insieme che per forza dovrà tenere conto di entrambe le posizioni. «In questo momento ciò che devono fare sia i lealisti che i repubblicani è inseguire una “politics of transcending”», chiude il vescovo Treanor. «Se vogliamo instaurare un vero processo di pace serve una stabilità di giudizio di fronte ai decenni scorsi, un coraggio nel giudicare in maniera equa gli errori del passato per stabilire i traguardi per il futuro. Uno su tutti: elaborare una narrativa comune, una società che abbia come protagonista ogni cittadino, di qualunque gruppo o fede sia».
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