Il beato Paolo Manna, precursore del Concilio, «un missionario scomodo»

Di Piero Gheddo
22 Novembre 2016
A cento anni dalla fondazione dell’Unione missionaria del clero e dei religiosi, ritratto del "profeta" che pose il problema missionario a tutta la Chiesa. «Tutti i fedeli per tutti gli infedeli»

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Tratto dal blog di padre Piero GheddoCari amici, il Beato padre Paolo Manna (1882-1952) dall’inizio del 1900 fino alla morte ha preannunziato e preparato, con gli scritti e diverse fortunate iniziative, il Concilio Vaticano II (1962-1965). È riconosciuto come il profeta della missione universale della Chiesa (ad gentes, alle genti), che è ancora ai primi passi nell’annunziare e testimoniare Gesù Cristo a tutti i popoli, le culture e le lingue del mondo. In Africa ci sono circa 800 lingue parlate e scritte. La Bibbia intera è tradotta in circa 60 lingue, il Vangelo più o meno in 300.
Cari amici, forse a prima vista questo tema non vi interessa e vi capisco. La vita moderna è travolgente e siamo tutti presi da tanti problemi urgenti e concreti. Però il cristiano vive con maggior serenità e gioia, e capisce tante cose, se ha coscienza del momento storico in cui si trova la Chiesa.
Oggi papa Francesco parla della “Chiesa in uscita”. Noi siamo la Chiesa e questo significa che la fede è un dono che Dio ha fatto a noi col Battesimo. È il tesoro più prezioso che abbiamo. Dobbiamo custodirlo e testimoniarlo, comunicarlo agli altri. Perché «la fede si rafforza donandola» scriveva Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris missio del 1990 (n. 2).
Già all’inizio del Novecento padre Manna proclamava quel che poi ha codificato il Concilio e oggi ripete (a modo suo) papa Francesco. Ecco perché una rapida narrazione storica di come la missione universale si è affermata nella Chiesa cattolica è interessante per tutti.

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[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Nel 2016 sono cent’anni che il Beato padre Paolo Manna (1872-1952) fondò l’Unione missionaria del clero e dei religiosi, oggi Opera pontificia.

Il 28 ottobre a Roma si è celebrato il “Giubileo della Missione” e padre Ciro Biondi, segretario nazionale della Pum e responsabile di Missio-Consacrati, ha presentato questa proposta su padre Manna al presidente di Missio e della Commissione per l’Evangelizzazione della Cei, monsignor Francesco Beschi, vescovo di Bergamo e al segretario generale della Cei, monsignor Nunzio Galantino.

Per noi del Pime il beato padre Paolo Manna, superiore generale (1924-1934), è il personaggio che rappresenta bene lo spirito del nostro Istituto che non è un ordine religioso, ma una comunità di vita apostolica per la “missio ad gentes”. Questa la radice della Pum (Pontificia unione missionaria) che nei suoi cent’anni di vita vuole rinnovarsi secondo lo spirito del Fondatore. Anche la missione alle genti, ancora ai primi passi rispetto alle sterminate popolazioni dell’Asia (il 62 per cento dell’umanità col 6-7 per cento di cristiani) che ancora ignorano Gesù Cristo Salvatore, può avere il suo Dottore della Chiesa, profeta e precursore del Concilio Vaticano II.

Ecco cosa hanno detto di lui:

«Il beato Paolo Manna fu un autentico precursore delle intuizioni e delle indicazioni del Concilio Ecumenico Vaticano II». Così, quando lo proclamava beato il 4 novembre 2001 Giovanni Paolo II, che nel settembre 1990 si recò nel cimitero dei missionari nel giardino della casa del Pime a Ducenta (Caserta) e si fermò a pregare davanti alle tombe di padre Manna e del suo discepolo e primo biografo, padre G. B. Tragella. Il Papa di Sotto il Monte, Giovanni XXIII, che lo conosceva bene, lo definiva «il Cristoforo Colombo della nuova cooperazione missionaria». Paolo VI l’ha giudicato «uno dei più efficaci promotori dell’universalismo missionario nel secolo XX». Padre Drehmanns, studioso di storia missionaria e superiore generale degli Omi, ha scritto: «Padre Manna è all’origine e alla guida di tutto il movimento missionario del ‘900». Il famoso teologo gesuita Henri De Lubac ha scritto durante il Vaticano II: «Padre Manna è l’espressione più completa di una missione condivisa» (da tutta la Chiesa, non più solo dei missionari e dei religiosi). Il cardinale Celso Costantini, prefetto di Propaganda Fide, l’ha definito «un uomo pericoloso, come si diceva in qualche seminario dopo la diffusione di Operarii autem pauci! …un seccatore! Santo ma seccatore… un temerario… Comunque e sempre un missionario scomodo» (perché le sue intuizioni sulla universale missione della Chiesa davano fastidio).

Quali sono le intuizioni e le iniziative profetiche di Manna, che l’hanno reso il protagonista del movimento missionario nel Novecento? Non è facile rispondere a questa domanda. Per scrivere la sua biografia sono stato giorno e notte nelle due grandi sale dell’archivio di padre Manna, nella casa del Pime a Ducenta (Caserta), curato dal padre Ferdinando Germani, autore dei cinque grossi volumi della sua monumentale biografia. Il mio libro (Paolo Manna, fondatore dell’Unione missionaria del Clero, Emi, 2001, 400 pagine, 18 euro) è stato scritto per la sua beatificazione nel 2001.

Ecco in estrema sintesi chi era padre Manna.

La santità e la profezia di Paolo Manna
Paolo Manna nasce nel 1872 ad Avellino da una famiglia molto religiosa con diversi sacerdoti e suore. I suoi genitori, Vincenzo e Lorenza Ruggiero, hanno avuto sei figli, due sacerdoti, uno medico e prof universitario. La mamma muore quando il piccolo Paolo aveva due anni e mezzo, diventa un adolescente irrequieto e viene educato dagli zii paterni. Compie a Roma gli studi per diventare sacerdote e dopo aver letto Le missioni cattoliche, nel 1891 entra nel Pime ed è ordinato sacerdote nel 1895. Parte per la Birmania orientale, ma non resiste a quel clima molto umido e caldo-freddo. Si ammala di tubercolosi come altri della sua famiglia. Nel 1905 ritorna in Italia e si dichiara «un missionario fallito». Pellegrino a Lourdes, non chiede alla Madonna di guarire, ma di innamorarsi di Gesù e donare tutta la sua vita alla diffusione del Regno di Dio.

Nel 1909 Manna è nominato direttore di Le missioni cattoliche, che allora era settimanale (oggi Mondo e Missione), e manifesta subito la sua straordinaria passione missionaria. Sfogliando i fascicoli di quegli anni, la differenza tra prima e dopo Manna si vede subito. Pur senza abbandonare le caratteristiche che l’avevano resa famosa (relazioni da tutte le missioni, studi storici e antropologici, attualità missionaria da tutto il mondo, le religioni non cristiane, relazioni di viaggi tra popoli lontani, eccetera), Le missioni cattoliche diventa una fucina di proposte e provocazioni. Gli editoriali trasmettono entusiasmo per l’ideale missionario! Quasi in ogni fascicolo, Manna trova gli spunti per promuovere libri missionari, opuscoli popolari, calendari, strenne, cartoline; appelli per le vocazioni missionarie, esortazioni a pregare per i missionari, eccetera; inventa e inizia le «zelatrici missionarie» in diocesi e parrocchie per promuovere in Italia le Opere della Propagazione della Fede e della Santa Infanzia (che erano ancora in Francia).

Le missioni cattoliche ha trovato un’anima. All’inizio del ‘900, quando le riviste missionarie erano bollettini di istituti e ordini religiosi, la “rivoluzione profetica” di padre Manna è questa: il problema missionario riguarda non solo i missionari ma tutta la Chiesa ed esige una soluzione globale: il coinvolgimento di tutti i battezzati, vescovi, sacerdoti e fedeli, diocesi e parrocchie, congregazioni religiose e associazioni laicali. È una novità profetica nella vita della Chiesa: non più le missioni affidate ai missionari e ai religiosi, ma opera di tutto il Popolo di Dio, di tutta la Chiesa: «La conversione degli infedeli è il problema dei problemi» – «Tutti i fedeli per tutti gli infedeli».

Nel 1909 padre Manna pubblica Operarii autem pauci (Gli operai sono pochi) e manda il libro a Pio X, che risponde con una lettera scritta a mano:

«Al carissimo figlio padre Paolo Manna, missionario apostolico, colle più sincere congratulazioni pel bel lavoro “sulla vocazione alle Missioni Estere” e col voto che molti rispondano generosamente alla voce del Signore che li chiamasse a questo apostolato. In segno di gratitudine e di particolare affetto, impartiamo l’Apostolica Benedizione. Dal Vaticano, 12 maggio 1909. Pius Papa X».

Un fatto eccezionale che aumentò, se possibile, la carica di spirito missionario dell’autore. Ma il libro venne proibito in molti seminari diocesani, perché infiammava i giovani nell’amore a Gesù Cristo, invitandoli a donare la vita per il Regno di Dio.

Nel 1916 Paolo Manna fonda l’Unione missionaria del clero e nel 1919 la rivista Italia Missionaria per le vocazioni missionarie; istituisce i “circoli missionari” nei seminari diocesani, da cui vengono numerose vocazioni per le missioni. Nel 1942 scrive I fratelli separati e noi, che scuote la Chiesa italiana e, nonostante il tempo di guerra, fa discutere anche i vescovi e i sacerdoti.

Il beato Paolo Manna è sempre espressivo nei suoi scritti. Questo è il primo libro appassionato e provocatorio, che chiede con forza l’unità dei cristiani per la missione universale: «Non si può annunziare un Cristo diviso».

Nel 1950, due anni prima della morte, scrive Le nostre Chiese e la propagazione del Vangelo. Per la soluzione del problema missionario, da cui ha chiaramente origine l’enciclica di Pio XII Fidei donum (1957), che apre la via delle missioni al clero diocesano. Manna afferma che tutti i vescovi e i sacerdoti sono responsabili della missione tra i non cristiani; non si può affidare l’annunzio di Cristo solo a ordini religiosi e istituti missionari: «Mobilitiamo, organizziamo tutta la Chiesa in ordine alle missioni; rendiamo l’apostolato per la diffusione del Vangelo dovere di tutti quanti credono in Cristo». Il volume propone che sorgano «seminari missionari in tutte le province ecclesiastiche», per inviare in missione sacerdoti diocesani e laici (nel 1960 sorge a Verona il Ceial, per inviare sacerdoti e laici ai vescovi che li chiedono in America Latina).

L’Unione missionaria del clero, fondata nel 1916 con l’aiuto decisivo di san Guido Maria Conforti, arcivescovo di Parma e fondatore dei missionari saveriani, aveva lo scopo di infiammare i sacerdoti dell’amore di Cristo e poi «accendere in tutto il popolo cristiano una grande fiamma di apostolico zelo per la conversione del mondo». E più avanti, in un lungo e forte articolo del 1934 su Il pensiero missionario, padre Manna si lamentava perché nell’Unione missionaria si stava travisando lo spirito degli inizi, riducendo l’associazione a uno strumento volto ad impressionare, a commuovere per far denaro: «L’opera di Dio non si muove con questi mezzi».

L’Umdc in pochi anni si diffonde in tutto il mondo: nel 1919 aveva in Italia 4.035 iscritti (fra i quali i futuri Pio XI e Giovanni XXIII), nel 1920 10.255, nel 1923 16 mila sacerdoti (poi l’Unione è stata estesa anche ai religiosi e religiose). Manna era convinto che tutto nella Chiesa dipende dal clero. «La soluzione del problema missionario – scriveva – sta nel clero: se i preti sono missionari, il popolo cristiano lo sarà egualmente; se i preti non vivono la passione di portare Cristo a tutti gli uomini, anche il mondo cristiano non potrà fare miracoli… Lo spirito missionario è anzitutto una grande passione per Gesù Cristo e la sua Chiesa». Questo, nell’Italia d’oggi, significa la proiezione verso i non credenti e non praticanti italiani, cioè la “Chiesa in uscita” di papa Francesco. Come il beato Paolo concepiva l’Unione missionaria del clero è un tema che va approfondito, perché più che mai attuale.

Nel 1924 Manna è eletto superiore generale del Pime, fino al 1934; dal 1943 fino alla morte nel 1952 superiore regionale nel Sud Italia, regione che lui stesso aveva fondato col Seminario meridionale per le Missioni estere a Ducenta (Caserta). Muore a Napoli dopo un’operazione chirurgica il 15 settembre 1952.

Ha dato il meglio di sé nell’animazione missionaria: insisteva sulle vocazioni missionarie, la preghiera per le missioni, l’impegno personale di ogni cristiano. Ecco la profezia del beato padre Paolo Manna.

Da superiore generale del Pime (1924-1934) ha scritto 23 lunghe “Lettere ai missionari”, poi pubblicate nel volume Virtù apostoliche (IV edizione Emi 1997, 460 pagine), che è stato definito «un vero trattato di spiritualità della missione, maturato nell’esperienza sul campo, un classico della letteratura missionaria dei tempi moderni».

A quindici anni dalla beatificazione, il beato Manna è più che mai attuale. Nelle sue Virtù apostoliche egli afferma: «Il missionario non è niente se non impersona Gesù Cristo… Solo il missionario che copia fedelmente Gesù Cristo in se stesso… può riprodurne l’immagine nelle anime degli altri» (Lettera 6).

L’enciclica Redemptoris missio di Giovanni Paolo II (1990) ha ripreso quasi alla lettera quel che scriveva padre Manna: «L’universale vocazione alla santità è strettamente collegata all’universale chiamata alla missione: ogni fedele è chiamato alla santità e alla missione» (n. 90). Ancora la Redemptoris missio n. 84 (dove padre Manna è citato nella Nota N. 169): «La parola d’ordine deve essere questa: tutte le Chiese per la conversione di tutto il mondo».

Nel 1927 padre Manna parte per un lungo viaggio nelle missioni: in quasi due anni visita una dozzina di paesi d’Asia, Oceania e Nord America, rimanendo impressionato di come le missioni erano, a quel tempo, quasi isolate dalla vita dei popoli; si accontentavano di curare i poveri e i marginali, ma non avevano alcun influsso sulle classi colte e le politiche nazionali. Scrive un promemoria provocatorio per Propaganda Fide, Osservazioni sul metodo moderno di evangelizzazione (commentato da Giuseppe Butturini, Emi 1997); chiede cambiamenti rivoluzionari nel “metodo di evangelizzazione”: rifiutare l’occidentalismo, liberarsi dalla protezione interessata delle potenze occidentali, educare i sacerdoti locali secondo programmi diversi da quelli usati in Occidente; abolire il latino e il celibato per favorire una maggior partecipazione degli indigeni al sacerdozio nelle missioni, consacrando i migliori catechisti dove mancano assolutamente sacerdoti; eliminare ogni compromesso con il denaro e ogni fiducia nella potenza dei mezzi materiali.

Manna non era per nulla un contestatore o un ribelle, anzi afferma che le sue proposte non hanno valore assoluto e che partendo dalle stesse premesse si può giungere a conclusioni opposte alle sue: però lancia il grido d’allarme. La sua passione per la conversione del mondo infedele e la salvezza delle anime non gli permetteva di tacere: «Salus animarum suprema lex!», scriveva. La salvezza delle anime è la prima legge!

Perché Dottore della Chiesa?
La proposta di attribuire il titolo di Dottore della Chiesa al beato padre Manna è venuta da padre Ferdinando Germani con un lungo studio del 2010 e una tesi universitaria di Giovanni Zerbi. Ed è giustificata dal fatto che dal secolo XVI ad oggi la Chiesa ha attribuito questo titolo ai santi che si erano distinti per la SANTITÀ della vita, l’ORTODOSSIA nella fede e soprattutto per la loro SCIENZA eminente nelle opere sacre, testimoniata dai libri e dall’impatto positivo che le loro iniziative hanno avuto nel cammino storico della Chiesa. La proposta di padre Germani è interessante e plausibile, ma il titolo di Dottore della Chiesa è attribuito dal papa solo ai santi canonizzati. E noi speriamo e preghiamo che ciò avvenga al più presto per il beato padre Paolo Manna.

Comunque, non c’è alcun dubbio che la rivoluzione della missione universale portata dal Concilio Vaticano II nella Chiesa è stata preparata dal crescere travolgente, per 40 anni (1920-1960), delle missioni cattoliche e dalla nascita di centinaia di nuove giovani Chiese, che oggi, dice papa Francesco, sono la speranza della Chiesa universale (discorso alle Pontificie Opere Missionarie del 5 giugno 2015). Di tutto questo Manna è stato il profeta e precursore, sia come “missionario alle genti” che come “ecumenista”.

Tra le sante vergini Dottori della Chiesa ricordo Caterina da Siena (1347-1380), dichiarata tale nel 1939 da Pio XII. Quarant’anni dopo, nel 1979, celebrando l’anniversario, l’arcivescovo di Siena, monsignor Mario Ismaele Castellano, scriveva: «I Dottori della Chiesa non appartengono ad una università o accademia, ma fanno parte unicamente della Chiesa la quale, sola, li riconosce tali e ad essi è grata perché il loro insegnamento la arricchisce di sapienza e l’aiuta nella missione di salvezza». Quello che monsignor Castellano scriveva di santa Caterina si può benissimo attribuire anche al beato Manna. Egli non aveva titoli accademici, era però un sacerdote ricco di sapienza apostolica e, pochi mesi prima della morte (15 settembre 1952), pubblicò la seconda edizione di Le nostre Chiese e la propagazione del Vangelo. In copertina spiccava la sintesi del suo progetto, che coinvolgeva il Corpo mistico della Chiesa per la salvezza del mondo: «Tutta la Chiesa per tutto il mondo».

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