

Non solo è sopravvissuto: il bimbo inglese di 4 anni a cui ad aprile erano stati staccati i supporti vitali sta migliorando. E il giudice che aveva autorizzato il King’s College Hospital di Londra al distacco ora ha revocato la sentenza con la quale aveva limitato all’inizio dell’anno i trattamenti di cura: il piccolo è a casa sua, respira autonomamente, non ha bisogno di catetere e nutrizione artificiale.
«Ha travolto tutte le aspettative mediche e il suo caso sottolinea la massima che “la medicina è una scienza dell’incertezza e un’arte della probabilità”», ha affermato il giudice Nigel Poole dopo aver «riflettuto con ansia» sul suo precedente giudizio ed essere arrivato alla conclusione che allora fosse «giustificato» dalle prove fornite dall’ospedale e dagli avvocati della famiglia che «non erano riusciti a indicare alcun caso segnalato in cui un bambino fosse sopravvissuto per mesi dopo la sospensione del trattamento di sostegno vitale a seguito di una decisione del tribunale».
Accade nel Regno Unito: il piccolo, nato nel 2020 sordo e cieco, con una malformazione cerebrale, era stato ricoverato nel 2023 in seguito a una infezione che si era diffusa al cervello, aveva subito due infarti e da allora era rimasto intubato e sottoposto a ventilazione artificiale. Le cose erano finite come da copione nel Regno Unito, cioè in tribunale. Dapprima i medici avevano chiesto e ottenuto dal giudice Poole (sentenza del 17 gennaio 2024) l’imposizione di un limite ai trattamenti: in caso di arresto cardiaco il piccolo non sarebbe stato rianimato. Poi, il 22 febbraio, avevano avanzato richiesta di rimuovere di sostegni vitali. Ma i genitori, cristiani ortodossi – identificati come “il signore e la signora R” – si erano opposti.
Negato loro un rinvio dell’udienza e il tempo di presentare una seconda valutazione per trasferire il piccolo in Italia, in un ospedale “associato al Vaticano”, con la seconda sentenza (23 aprile 2024) il giudice Poole aveva nuovamente avallato la posizione dei medici secondo i quali non c’erano prove che il bambino avesse «consapevolezza dell’ambiente che lo circondava» ed era «struggente» vederlo «peggiorare e sapere che nessuna delle terapie potrà migliorare la sua vita e che è impossibile offrirgli una vita senza dolore». I clinici non sapevano se e quanto il bambino soffrisse ma erano convinti che non ci fossero alternative alla sofferenza, né alla morte che sarebbe sopraggiunta in casa una volta estubato e con le cure palliative probabilmente «entro poche ore o pochi giorni», oppure «in un’unità di terapia intensiva ospedaliera con ventilazione invasiva, probabilmente entro i prossimi sei mesi».
Il giudice Poole aveva elogiato la «fede incrollabile» dei genitori sottolineando tuttavia che l’amore «incondizionato» e la devozione «commovente» per il bambino impedissero loro di accettare ciò che ad altri era palese: «Gli oneri derivanti dal curarlo per mantenerlo in vita superano di gran lunga i benefici ed è nel suo interesse che il trattamento di sostegno vitale venga interrotto». Allo stesso modo «sarebbe contrario ai suoi interessi ricevere un trattamento del genere in Italia come in Inghilterra».
Il giudice aveva insistito particolarmente sulla fede cristiana dei genitori: «Mi hanno detto che non avevano mai pensato di interrompere la gravidanza della signora R dopo che erano stati informati delle anomalie congenite del bambino in seguito all’ecografia. Pensavano allora, e pensano ora, che sia un dono di Dio (…) hanno spiegato con forza alla Corte di come la vita di loro figlio abbia un senso (…) La signora R ritiene anche che la sospensione del trattamento di sostegno vitale sia eutanasia. Ritengono che sarebbe discriminazione per motivi di disabilità accogliere la richiesta del Trust. La signora R mi ha chiesto perché suo figlio dovrebbe essere “costretto a morire”. Queste sfide sincere e ragionevoli meritano delle risposte».
Alle domande della signora R il giudice aveva risposto che i pazienti come il loro bambino «non erano ”costretti a morire”, ma non dovevano essere “costretti a vivere”, potevano essere sollevati dagli oneri del trattamento e “lasciati morire”». E che la sentenza era sulla continuazione di un trattamento ritenuto «illegittimo» dai medici, «non è un ordine di porre fine a una vita. Non consente un atto di eutanasia». Aveva inoltre rigettato ogni accusa di discriminazione sottolineando che «la legge si applica in egual modo a tutti i bambini, indipendentemente dall’entità della loro disabilità o malattia», e che la presunzione di «salvaguardia della vita è forte ma, a mio giudizio, in questo caso è chiaramente superata». Almeno aveva accettato che i genitori potessero riportare a casa il figlio prima che venisse rimossa la ventilazione.
Ma il bambino non era morto. Anzi. I medici del King’s College Hospital oggi ammettono che non avrebbero mai chiesto il permesso di sospendere il trattamento se il piccolo si fosse trovato «nelle attuali condizioni e circostanze». Il punto è che le statistiche non aiutano ad avverare circostanze: «Sarebbe più onesto se i medici riconoscessero che si tratta di un individuo che la scienza medica non comprende realmente e che (la statistica, ndr) non è una buona base per prevedere cosa può fare questo ragazzino complicato. È sopravvissuto quando i dottori e gli infermieri che si sono presi cura di lui per mesi pensavano che non ce l’avrebbe fatta. Ora ha diritto alla vita. Ci sembra che la sua volontà di vivere sia forte e che la sua vita sia bella», ha detto la mamma dopo aver chiesto al giudice di revocare l’autorizzazione concessa all’ospedale di limitare le cure per il bambino che secondo i medici non sarebbe sopravvissuto.
Il giudice stesso ha ammesso che nonostante il piccolo «continui a soffrire il peso della sua condizione e di alcune delle cure … vi sono anche prove che ora è in grado di trarre piacere dalla sua vita a casa con i suoi genitori». Lo ha fatto descrivendo le foto del piccolo sorridente in chiesa e al parco «circondato da coloro che lo amano e si prendono cura di lui». Pertanto ha elogiato «l’abilità e la cura» dei professionisti dell’ospedale che hanno mantenuto il piccolo «in vita contro ogni previsione». Quello che resta per lui «inspiegabile» di questo caso «insolito» non è tanto il miracolo della sua sopravvivenza, quanto il fatto che il bambino sia «riuscito a confondere le aspettative di tutti i professionisti medici» e sfuggire alle statistiche. «Questo caso non stabilisce che la corte non possa basarsi su prove mediche per quanto riguarda la prognosi di un paziente gravemente malato. Dimostra che la medicina è una scienza dell’incertezza».
Questa la storia del piccolo figlio del signore e della signora R. Di cui conosciamo solo l’aspetto clinico, come per Charlie Gard, Alfie Evans, Isaiah Haastrup, Archie Battersbee, Pippa Knight, Indi Gregory e tutti i bambini a cui è stato impedito il trasferimento in Italia e ordinato il distacco dei supporti vitali. Casi in cui la “scienza dell’incertezza” ha portato a un unico verdetto: eliminare il paziente perché “non è possibile guarirlo”, perché non si sa “se soffre”, perché non sa “quando morirà”.
In realtà sappiamo anche altre cose.
Sappiamo nel Regno Unito il sistema sanitario tende a non accollarsi interventi e trattamenti su bambini con aspettative di vita ridotte per ragioni legislative e di budget. Come abbiamo scritto molte volte, non è una scelta di natura medica: è una scelta di natura etica. Sappiamo che nel Regno Unito è pacifico non dare alla luce un disabile: e cosa farne una volta nato non è questione medica, di studi o competenze, ma questione di linee guida, leggi, budget. Sappiamo che è questa la differenza tra medici inglesi e medici come quelli di un “ospedale finanziato dal Vaticano”, leggi Bambino Gesù: la differenza di approccio non sta nelle terapie (non ci sono terapie salvavita), ma nell’alleanza terapeutica genitore-medico nella zona grigia dell’esistenza. Sappiamo che nel Regno Unito, complice l’ormai importante giurisprudenza su casi analoghi, questa zona è oggi presieduta da giudici e tribunali. Che applicano la giustizia come un algoritmo basato su prove mediche e statistiche.
Giusto: ma perché davanti a un bambino misteriosamente vivo e sorridente vedere un’anomalia del sistema, un eccezionale tradimento delle statistiche e delle evidenze scientifiche invece di una vittoria della medicina, intesa nella sua piena vocazione di cura e dedizione al malato anche quando non può guarire? Davvero il criterio ultimo della medicina è evitare la sofferenza e avvalersi della legge per eliminare il problema? Se è inammissibile il miracolo agli occhi del giudice, perché non riconoscere nella cura e nella dedizione di quei genitori e medici verso quel bambino in particolare la prova certa del fatto che ogni malato non è mai uguale all’altro e assistere fino alla fine si chiama, anche questo, medicina (e non fa rima con eutanasia)?
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