“Balla coi lupi”, 30 anni e non sentirli (quanto ci piace il western)
Articolo tratto dal numero di febbraio 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Trent’anni da Balla coi lupi. Un’eternità che non rende per nulla datato il film di Kevin Costner, che come tutti i capolavori non risente del tempo, ma rende ancora più lontano un certo tipo di cinema e anche di spettatore. La pellicola, gli scomodissimi sedili di legno dell’oratorio. E ancora il foyer da cinema teatro con la moquette rossa alla Shining. E poi l’attesa spasmodica dei grandi film di quel 1990: Nikita di Besson, Edward mani di forbice, Misery non deve morire che ci fece una paura fottuta, Risvegli e Quei bravi ragazzi con cui scoprii Robert De Niro. E infine, appunto, Balla coi lupi.
Il mio primo western, a 14 anni, e forse anche l’ultimo perché, a parte quella messa funebre che Clint allestì con il suo splendido, cupo Gli spietati, ben poco del western classico è rimasto negli anni a venire.
Peter Bogdanovich, che prima di essere regista fu critico cinematografico, disse una volta che finché si producevano western, belli o brutti che fossero, c’era una speranza nel mondo. La speranza di un mondo comprensibile, fatto di bene e di male rappresentati in modo chiaro a tutti, costruito su grandi eroi chini sui più deboli: come John Wayne in Ombre rosse e la sua attenzione discreta per la reietta. O in tanti momenti di Balla coi lupi, dove Costner si gioca faccia e reputazione, facendo parlare i nativi con la loro lingua ma soprattutto ergendoli a protagonisti accanto a sé.
Film dal respiro epico, fotografia, ambientazione che portò al culmine il successo di Costner che era bello, bravo e giovane e sbancò al botteghino e si portò a casa 7 Oscar. Fu un grande successo che portò, come spesso capita, anche conseguenze nefaste. Costner inanellò un altro paio di successi commerciali: Robin Hood, Guardia del corpo e soprattutto portò a casa un’interpretazione memorabile con Eastwood nel bellissimo Un mondo perfetto.
Poi il tonfo: il progetto milionario di Waterworld, un kolossal anfibio, girato alle Hawaii a metà anni Novanta, costato quasi 200 milioni di dollari. Ne incassò la metà e Hollywood relegò il divo ai margini: b movie, film minori in tutto e per tutto. Con un’unica grande parentesi: nel 2003, Terra di confine, di cui è Costner interprete e regista. Un western crepuscolare in cui il protagonista fa i conti con le sconfitte della vita.
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Hammamet
Dopo Craxi, le monetine volevano tirarle a me
Qualche giorno fa ho proiettato Hammamet di Gianni Amelio, il film su Bettino Craxi anche se Craxi è sempre chiamato solo «il Presidente» e i riferimenti politici e storici sono un po’ vaghi.
Ero lì che mi sbracciavo a dire che il film era un po’ paraculo, che dava un colpo al cerchio e uno alla botte, che insomma era il solito film di Amelio (anche se non il migliore): un film su orfani che si ritrovano smarriti, senza padre e senza patria, un po’ come erano Le chiavi di casa e Il ladro di bambini. Insomma, una riflessione sul potere e su chi vi rimane orfano perdendo tutto.
Poco ci mancava che il folto pubblico tirasse pure a me le monetine. «Era un ladro: se l’è meritato». Pure la scena terribile da puro Bagaglino con cui Amelio rappresenta il corpo malandato di Craxi, esposto al pubblico ludibrio, persino quella non ha suscitato un briciolo di pietà.
Sono uscito con la voglia di rivalutare il film, imperfetto, con poco equilibrio, forse troppo schiacciato dall’interpretazione mostruosa di Pierfrancesco Favino che si mangia l’intero film.
C’è un’intuizione bella: rappresentare un potente come un leone in gabbia tanto orgogliosamente fiero nella vita pubblica, quanto fragile, incapace di un rapporto equilibrato coi figli nella vita privata.
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Il gioco delle coppie
Raffinato, arguto e attori uno più bravo dell’altro
Le vicende sentimentali e lavorative di un editore e di uno scrittore in crisi.
Bel film, arguto e intelligente, diretto dal discontinuo Oliver Assayas. Sullo sfondo della crisi dell’editoria, ben sintetizzata dalla figura di un editore cinico ancorché travolto dalla rivoluzione digitale, si intrecciano storie di infedeltà, tradimenti e riappacificazioni.
Molto raffinato, con dialoghi serrati ed eleganti che guardano al cinema nel cinema e il solito parterre di attori francesi uno più in gamba dell’altro: c’è addirittura la Binoche che fa il verso a se stessa.
Regia di Olivier Assays, con Guillaume Canet e Juliette Binoche
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Tutti in piedi
Commedia che si fa beffe di tutti senza pietà
Un playboy cinico si finge disabile per conquistare una bella ragazza.
Commedia romantica politicamente scorretta sia nell’assunto di partenza, sia nello svolgimento, diretta e interpretata da Franck Dubosc. Lo schema è quello tipico della commedia degli equivoci con qualche caduta di stile.
Lui è un playboy da strapazzo, tronfio e pieno di sé, che si finge disabile per conquistare la bella di turno. Lei, sulla sedia a rotelle per davvero, è colta, sensibile, autoironica.
È un film che non ha pietà di nessuno e si fa beffe di tutti, disabili e non.
Regia di Franck Dubosc, con Franck Dubosc, Alexandra Lamy
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Old Man & the Gun
Il vecchio Robert Redford vuole sentirsi ancora vivo
Un anziano bandito diviso tra la tentazione del “colpo” e la vita normale.
Film omaggio alla carriera e al carisma di Robert Redford, che veste i panni di un bandito gentile, affascinante e anziano. Redford non nasconde gli acciacchi: cammina a fatica, il volto è segnato dalle rughe e nemmeno il sorriso è quello di un tempo. Si ostina a fare rapine, anche se non ha bisogno né di soldi né di altro. Solo per sentirsi vivo.
Fuor di metafora: ci si ostina a far cinema (il film è costellato di citazioni di film di Redford) un po’ per vanità, un po’ perché la vita, là fuori, è terribilmente ordinaria.
Regia di David Lowery, con Robert Redford, Casey Affleck
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