Attivi e passivi della rivoluzione egiziana, un anno dopo

Di Rodolfo Casadei
27 Gennaio 2012
Il pericolo che la Rivoluzione del 25 gennaio possa finire molto male non sta principalmente nel problema dei rapporti fra civili e militari, ma nella capacità o meno delle nuove autorità di invertire il declino economico e di rispondere alle attese degli egiziani poveri, che rappresentano la maggioranza della popolazione.

All’indomani delle manifestazioni di piazza Tahrir – metà festa, metà protesta – che hanno celebrato il primo anniversario dei moti di piazza che iniziarono il 25 gennaio 2011 e portarono alle dimissioni di Hosni Mubarak è giocoforza tentare un bilancio della Rivoluzione che ha cambiato il volto del più popoloso paese arabo e rischiare pronostici sul suo futuro. Tale bilancio è necessariamente provvisorio, essendo i cambiamenti istituzionali innescati dalla rivoluzione ancora in corso e, soprattutto, non essendo ancora chiaro quali strade l’Egitto imboccherà, quando il suo esecutivo e il suo legislativo saranno stati definitivamente rimodellati, in materia di politica economica, politica estera, rapporti con le istituzioni finanziarie internazionali, ecc. L’elenco degli attivi e dei passivi della Rivoluzione aggiornato al 25 gennaio 2012 potrebbe in ogni caso essere ragionevolmente il seguente.

Cominciamo dagli attivi.

  • La deposizione di un regime liberticida e la messa in stato di accusa di alcuni dei suoi vertici, a partire dal capo di Stato Hosni Mubarak.
  • La dissoluzione del parlamento non democratico e delle amministrazioni locali, ugualmente nominate dall’alto o con elezioni falsate.
  • La legalizzazione di tutti i partiti politici, in precedenza condannati a uno stato larvale o costretti alla clandestinità, e la piena liberalizzazione della vita politica.
  • Lo svolgimento di un referendum costituzionale e di elezioni politiche ancora non concluse (resta da eleggere il Senato) nelle quali il popolo egiziano ha potuto esprimere in piena libertà la sua volontà e le sue preferenze.
  • Lo svolgimento di elezioni libere e trasparenti degli organi di rappresentanza degli ordini professionali e degli organi di autogoverno delle università, prima controllati dal regime.
  • L’autorizzazione di un gran numero di manifestazioni politiche pacifiche e la fine della censura e dell’autocensura nei mezzi di comunicazione.
  • L’indennizzo delle famiglie delle vittime della repressione fra il 25 gennaio e l’11 febbraio dello scorso anno.
  • La revoca, seppure tardiva (è avvenuta in coincidenza con l’anniversario dei moti), dello Stato d’Emergenza proclamato nell’ottobre 1981 all’indomani dell’assassinio del presidente Anwar el Sadat e da allora ininterrottamente in vigore.

Anche i passivi sono però importanti e numerosi.

  • L’aumento della criminalità e dell’insicurezza nel paese, che hanno anche danneggiato settori cruciali dell’economia, a cominciare dal turismo internazionale che ha conosciuto una flessione vicina al 30 per cento.
  • Gli scioperi a ripetizione e gli attentati ai gasdotti, che insieme alla caduta del turismo hanno fatto sì che nel 2011 il pil crescesse appena dell’1 per cento, mentre in tutto il decennio precedente si era registrata una media annua del più 5 per cento.
  • La crisi economica e finanziaria, che ha bruciato 26 miliardi di dollari di riserve di valuta (erano 36 miliardi alla vigilia della rivoluzione, sono soltanto 10 oggi) e spinto al 16 per cento il tasso di interesse sui titoli di Stato.
  • L’accresciuta insicurezza della principale minoranza religiosa, quella dei cristiani copti, oggetto sia di attacchi da parte degli estremisti salafiti sia della repressione cieca delle forze dell’ordine, come nel caso della manifestazione di fronte a Maspero (il palazzo della stampa al Cairo) nell’ottobre scorso.
  • I ripetuti tentativi di attribuire per legge e per costituzione all’esercito un ruolo sproporzionato nel sistema politico e privilegi permanenti, come quello di decidere il budget della difesa.
  • La mancata bonifica dei media statali e del sistema giudiziario, dove restano molti elementi collocati nelle posizioni apicali dal vecchio regime per la loro fedeltà.
  • Il mancato recupero dei capitali esportati all’estero dalla nomenklatura di potere.
  • La repressione violenta di manifestazioni pacifiche, l’uso sproporzionato della forza contro manifestanti non pacifici, i maltrattamenti e le umiliazioni inflitte alle manifestanti donne, la mancata incriminazione degli agenti delle forze dell’ordine responsabili degli eccessi, la detenzione di quasi 2.000 oppositori in gran parte prigionieri di coscienza, come il blogger copto Maikel Nabil, rilasciati, secondo quanto hanno comunicato i militari, soltanto in questi giorni.

Se questo è un bilancio stilato voce per voce, il pronostico deve essere per forza più articolato e discorsivo. Tanto per cominciare, è facile pronosticare l’ordinato passaggio dall’attuale regime militare provvisorio, rappresentato dal Consiglio supremo delle forze armate presieduto dal generale Hussein Tantawi, a un sistema politico civile per la fine di giugno, quando tutti i processi elettorali saranno conclusi, e l’Egitto avrà un nuovo parlamento, un nuovo capo dello Stato e, verosimilmente, una nuova costituzione. Si può pronosticare che la nuova costituzione diminuirà i poteri del presidente della repubblica e aumenterà quelli del parlamento, per non dover avere più a che fare con uomini forti che si trasformano in dittatori come è accaduto con gli ultimi tre presidenti egiziani: Gamal el Nasser, Anwar el Sadat e Hosni Mubarak. La frustrazione per la crisi economica e il disgusto per l’accresciuta insicurezza sono crescenti ma non sono così forti da innescare un movimento popolare a favore della permanenza al potere dei militari: la più affollata manifestazione a favore del Consiglio militare non è riuscita a raccogliere più di 20 mila partecipanti, nel novembre scorso. Solo un evento catastrofico a livello internazionale, come una nuova guerra in Medio Oriente, potrebbe rimettere in discussione quello che ora in discussione non è.

Dopo il passaggio dei poteri dai militari ai civili, il nuovo governo farà di tutto per tranquillizzare le forze armate, ma non fino al punto di costituzionalizzare i loro privilegi. I Fratelli Musulmani, che occupano il 47 per cento dei seggi della camera bassa del parlamento dopo le recenti elezioni, hanno accumulato sufficiente legittimità per trattare coi militari da una posizione di forza. Allo stesso tempo, non avendo partecipato alle manifestazioni di protesta contro i militari organizzate a partire dall’estate scorsa da democratici e salafiti, e non avendo mai ecceduto nelle critiche nei confronti del Consiglio presieduto dal generale Tantawi, sono percepiti dagli alti ufficiali delle forze armate come il male minore rispetto agli altri partiti.

L’alleanza di fatto fra Fratelli Musulmani è una necessità per entrambi le parti, per quanto esecrata da sinistra (i democratici, i liberali e i laici che hanno innescato la rivoluzione un anno fa la giudicano un tradimento dello spirito rivoluzionario e una minaccia per la libertà) e da destra (i salafiti la considerano empia). I Fratelli Musulmani non hanno ecceduto nelle critiche verso i militari per poter arrivare con tranquillità alle elezioni, dove sapevano che avrebbero conquistato una messe di seggi. Ora che stanno per entrare nelle stanze del potere, cercano di assicurarsi contro eventuali golpe che i militari potrebbero essere tentati di attuare. Per questo lodano tutte le volte che possono il comportamento delle forze armate, esaltano il loro ruolo nella difesa dell’integrità dei confini nazionali e delle nuove istituzioni democratiche, e soprattutto non appaiono intenzionati a mettere mano nelle nomine dei vertici dell’esercito, né a mettere in discussione i privilegi economici e affaristici di cui gli alti ufficiali beneficiano. Il loro obiettivo è l’islamizzazione delle forze armate nel lungo periodo, strategia di cui i Fratelli Musulmani sono maestri, come mostra la storia delle associazioni professionali egiziane e più in generale la storia dell’affermarsi dell’egemonia culturale islamista in Egitto.

Il pericolo che la Rivoluzione del 25 gennaio possa finire molto male non sta principalmente nel problema dei rapporti fra civili e militari, ma nella capacità o meno delle nuove autorità di invertire il declino economico e di rispondere alle attese degli egiziani poveri, che rappresentano la maggioranza della popolazione. C’è da temere che a un fallimento su questo piano un governo civile di tendenza islamista reagirebbe accentuando le rigidità ideologiche e cercando di esportare le contraddizioni verso l’esterno, cioè alimentando l’animosità popolare nei confronti di Israele. Sarebbe il classico ricorso alla demonizzazione del nemico esterno per compattare e controllare il fronte interno.

Infine, su temi considerati molto sensibili dall’opinione pubblica occidentale non ci sarà il benchè minimo cambiamento: l’Egitto continuerà ad essere un paese dove l’omosessualità è considerata un reato, dove le donne saranno svantaggiate rispetto all’erede maschio, dove la pena di morte continuerà ad essere inflitta dai tribunali e dove le conversioni dall’islam ad altre religioni o all’agnosticismo resteranno virtualmente impossibili. Perché le leggi e le pratiche vigenti riflettono il sentimento popolare dominante. Gli appelli in senso contrario di Amnesty International ai partiti egiziani appaiono patetici e fuori dalla realtà per questo motivo.

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