Tentar (un giudizio) non nuoce
Attenzione ai Balcani focolaio dell’Europa
Nei giorni scorsi sono stato in missione Istituzionale con il presidente Fontana in Serbia per una serie di incontri al massimo livello con il presidente della Repubblica Aleksandar Vučić, il Primo ministro, il presidente del Parlamento e altri ministri del Governo, oltre al presidente della Voivodína, una provincia autonoma serba con cui da tempo la Lombardia intrattiene rapporti. Inoltre, rilevante è stata la partecipazione ad un importante forum italo-serbo dedicato all’innovazione, molto ben organizzato dalla nostra ambasciata.
La missione è stata utile per visitare alcuni centri di ricerca e approfondire con i protagonisti di questo settore le opportunità di collaborazione con l’Italia. Erano presenti con noi diversi realtà accademiche e del mondo della ricerca e innovazione, che hanno siglato due accordi di rilevanza strategica: una partnership tra l’università dell’Insubria e l’università di Belgrado e un accordo fra la società lombarda Arexpo e lo Science and Technology Park di Novi Sad.
Una missione nei Balcani, in ogni caso, è sempre un’occasione per comprendere più a fondo le caratteristiche, le peculiarità e anche le criticità di quella che nei secoli è stata, è ancora oggi è, la prima area infiammata dell’Europa.
I Balcani dell’ovest, quindi la Serbia, la Bosnia, la Macedonia, il Montenegro, il Kosovo e l’Albania sono la linea di faglia tra l’Occidente e l’Oriente, tra il mondo cristiano e quello mussulmano, tra il passato Impero Romano d’Oriente (poi impero Ottomano) e quello d’Occidente; quindi, sono il luogo dove il confronto e anche lo scontro tra civiltà e differenti visioni del mondo e dell’uomo sono state sempre più vivaci e drammaticamente brutali.
Il sentimento del popolo minuto
Per noi che siamo abituati a vivere all’interno di un contesto culturalmente definito e quindi anche religiosamente e politicamente omogeneo, è una dimensione che fatichiamo a comprendere. È oggettivamente estraniante prendere atto che un fiume divide due approcci del vivere completamente differenti.
La città di Mitrovica (in Kosovo), a pochi chilometri dal confine con la Serbia, è l’emblema di questa situazione. Qui le due comunità vivono sulle sponde opposte del fiume Ibar, collegate da un ponte presidiato costantemente dalle forze della Nato. Sono poche le persone che di giorno attraversano il ponte. Di notte ancora meno. I kosovari di origine albanese e quelli di origine serba vivono in due mondi che raramente si incontrano.
Tutto ciò lascia attoniti, ma la memoria di ciò che è accaduto nel 1999 a Belgrado, è ancora ben viva. In pochi, tra i cittadini, si sono scordati che la Nato ha bombardato pesantemente la città per convincere Slobodan Milošević (presidente della Serbia dal 1989 al 1997 e presidente della Repubblica Federale di Jugoslavia dal 1997 al 2000) a ritirare le sue mire espansionistiche sul Kosovo. Ancora oggi sulla strada che porta all’aeroporto campeggia una scritta gigante che rivendica “Kosovo is Serbia”. È bene sottolineare che questo “spirito d’appartenenza”, non appartiene solo alle figure istituzionali o agli intellettuali, ma ai taxisti, ai portieri degli alberghi, a quello che un tempo si sarebbe chiamato il “popolo minuto”. Per loro si tratta di un “nodo” ancora estremamente critico che condiziona, tra altro, l’adesione della Serbia all’Unione Europea che da anni chiede di riconoscere l’indipendenza del Kosovo per completare il processo di integrazione. In realtà, come mi è stato raccontato da un mio interlocutore: “Non ci sarà mai un politico serbo disposto a firmare questa condizione”.
Il tutto appare oltremodo paradossale perché ad un centinaio di chilometri di distanza esiste una provincia autonoma della Serbia, la Voivodína, dove sussiste un Parlamento in cui convivono sei lingue ufficiali (serbo, ungherese, slovacco, rumeno, ruteno, croato) e dove la coesistenza tra diverse etnie, portatrici di valori, religioni e culture differenti, rappresenta un fatto compiuto e solidamente stabilizzato, che ha trovato risposte Istituzionali adeguate.
Cina, Russia, Turchia
Quando ho chiesto al presidente della Voivodína perché il suo modello non potrebbe diventare un esempio anche per il Kosovo, la risposta è stata sorprendente ed anche illuminante: «Perché le persone pensano in modo diverso. Non si può imporre una mentalità a chi non vuole accettarla».
La complessità di questo territorio rappresenta dunque la sfida più grande per L’Europa, che deve essere in grado di offrire una proposta di integrazione e una prospettiva di inclusione, accettabile per tutti. Diversamente il rischio è quello che questi territori finiscano per voltare definitivamente il capo verso la Russia, con cui sussiste un legame sul modello panslavico da sempre, o la Cina e la Turchia che si stanno rapidamente posizionando con azioni anche molto incisive in quell’area del mondo. In un contesto in cui l’equilibrio del passato è messo in discussione, questa parte del mondo che è culturalmente e storicamente europea, diviene di fondamentale importanza che rimanga europea anche politicamente per garantire un equilibrio che va ben oltre gli Stati stessi di cui stiamo discutendo.
La nostra visita, per altro, è avvenuta poche ore dopo quella del presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che ha dimostrato anche nei contenuti e nelle dichiarazioni di avere ben chiaro che questo è un tema politico centrale, soprattutto per un Paese come l’Italia che è sulla sponda opposta dell’Adriatico. Per questo la nostra relazione con i Balcani continuerà e abbiamo già in programma una prossima missione in Albania a metà gennaio. Perché le relazioni internazionali fatte come si deve fanno bene all’economia e alle imprese, ma anche alla buona politica.
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