Argentina di nuovo in default? Qui si spiega come e perché «sì, è uno scenario possibile» (e la colpa non è solo degli spietati hedge fund)

Di Matteo Rigamonti
25 Giugno 2014
Intervista all'economista Emilio Colombo (Bicocca): «Il vero problema del governo di Cristina Kirchner? Non ha fatto nulla per risollevarsi dalla crisi di fine anni Novanta, anzi ha optato per uno statalismo anche peggiore»
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Se l’Argentina rischia di nuovo il fallimento finanziario, non è innanzitutto colpa di due hedge fund. I problemi che affliggono il paese, infatti, hanno un’origine più profonda, che va cercata nelle politiche messe in atto dai governi di Buenos Aires dal Dopoguerra fino a oggi. Compreso quello dell’attuale presidente, Cristina Kirchner. Ne è convinto Emilio Colombo, docente di Macroeconomia e Finanza internazionale all’Università Bicocca di Milano, che a tempi.it spiega come mai l’Argentina non rimborserà i due fondi di investimento suoi creditori per 1,5 miliardi di dollari. Questi ultimi, dopo aver rifiutato le condizioni poste dal governo Kirchner sul rimborso del debito, sono ricorsi in appello al tribunale di New York. Il giudice ha dato loro ragione, Buenos Aires ha presentato ricorso, ma la Corte suprema americana l’ha respinto. Ora, se l’Argentina decidesse di saldare i debiti con gli hedge fund, non solo dovrebbe sborsare gli 1,5 miliardi di dollari dovuti, ma rischierebbe di doverne pagare molti di più, circa 20 miliardi, perché «si aprirebbe un “vaso di Pandora”: tutti gli altri possessori di vecchi titoli chiederebbero egual trattamento», spiega Colombo.

Professore, l’Argentina rischia un nuovo default?
In linea teorica è uno scenario possibile, se davvero l’Argentina dovesse sborsare una simile cifra tutta d’un colpo. La verità, però, è un’altra. E cioè che non esiste alcuna legislazione internazionale che disciplina i casi di fallimento finanziario. Nessun tribunale al mondo può obbligare Buenos Aires a pagare. Ed è così per un motivo molto semplice: l’Argentina è come tutti i paesi uno Stato sovrano e tra le sue prerogative ha anche quella di emettere debito. Se fosse un’azienda privata, la si potrebbe costringere a pagare, ma non lo è. Una volta, per simili motivi, gli Stati si facevano la guerra, ora non è più così.

Gli hedge fund, però, vogliono indietro i loro soldi.
È normale che chi abbia investito in quegli hedge fund voglia far valere il proprio diritto ad avere indietro il 100 per cento di quanto speso. Ma non c’è nessun meccanismo concreto attraverso cui questa pretesa possa essere fatta valere. Del resto, quando uno Stato dichiara default, come ha già fatto l’Argentina ormai più di dieci anni fa, succede sempre che l’offerta rivolta ai possessori dei titoli del debito sia di tipo “take it or leave it”, ossia “prendere o lasciare”. Chi ha accettato la conversione dei vecchi titoli del debito in quelli nuovi ha subito un taglio del loro valore pari al 70 per cento. Ed è la stragrande maggioranza (il 93 per cento dei creditori) ad avervi aderito nel 2005. L’Argentina, poi, ha già più volte lasciato intendere che non tratterà in maniera privilegiata nessun creditore.

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Come è possibile?
Da un punto di vista tecnico, le cose stanno in questi termini: il 93 per cento dei creditori che ha accettato l’offerta del 2005 si trova in mano nuovi titoli che hanno un determinato tasso di interesse che l’Argentina paga regolarmente. Il rimanente 7 per cento, invece, tra cui gli investitori dei due fondi in questione, hanno ancora in mano i vecchi titoli, che l’Argentina non riconosce, ma che tecnicamente danno al possessore lo stesso diritto di chi detiene un nuovo titolo. Un titolo del debito, però, è semplicemente una promessa di pagamento. Nulla di più. Ora, il prossimo 30 giugno scadono le cedole degli interessi sui nuovi titoli. Ciò che la Corte suprema americana ha stabilito è che il governo argentino non può discriminare tra i detentori dei vecchi titoli (non pagandoli) e i detentori dei nuovi titoli. Perché il diritto a essere rimborsati è uguale per entrambi. Quindi se Buenos Aires non paga gli hedge fund che detengono i vecchi titoli, il tribunale può disporre, in virtù del fatto che il debito argentino è emesso sotto la legislazione di New York, che non vengano pagati gli interessi sui nuovi titoli, determinando tecnicamente un default.

Perché l’Argentina non vuole rimborsare i due hedge fund?
I due hedge fund detengono una quota piccola del debito argentino (circa l’1,6 per cento), ma se il governo di Buenos Aires si piegasse alle loro richieste si aprirebbe un “vaso di Pandora” e tutti gli altri possessori di vecchi titoli chiederebbero egual trattamento. Il che implicherebbe un esborso complessivo per quasi 20 miliardi di dollari. Ma il vero problema dell’Argentina è un altro; e cioè che il paese non si è mai risollevato dalla crisi di fine anni Novanta e, come se non bastasse, il governo ha optato per una chiusura sempre maggiore. Ha nazionalizzato tutto quello che c’era da nazionalizzare, come nel caso di Ypf, la compagnia petrolifera controllata dalla spagnola Repsol, che è stata ristatalizzata con la forza nel 2012. Tra l’altro, ironia della sorte, tre mesi fa Repsol ha accettato la proposta di compensazione del governo di Buenos Aires, che ha offerto di pagare con titoli di Stato. Titoli che, se dovesse verificarsi l’ennesimo default, varrebbero ben poco.

Qual è stato il limite delle politiche argentine per uscire dalla crisi?
Le politiche che sono state messe in atto dal governo di Buenos Aires sono state forse peggiori di quelle degli anni Quaranta. È un fatto noto, per esempio, che il governo “trucca” le statistiche sull’inflazione per pagare interessi minori sul proprio debito, al punto che le istituzioni internazionali e riviste autorevoli come l’Economist non pubblicano più da tempo i dati ufficiali sull’inflazione dell’Argentina perché non veritieri. Ora tutti i nodi stanno venendo al pettine. L’Argentina inoltre ha dilapidato il suo patrimonio di risorse energetiche, tanto che adesso importa petrolio pur essendone un grande produttore. Farebbe bene ad adottare misure e interventi volti a creare un po’ più di condizioni di mercato.

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Per esempio?
Fin dai tempi di Peron, l’Argentina ha adottato politiche protezionistiche nel commercio internazionale e ad oggi è ancora un paese relativamente chiuso anche nel confronto con gli altri Stati dell’America latina. Sappiamo, invece, che il commercio è uno dei motori della crescita economica. Il presidente Kirchner dovrebbe riformare radicalmente le istituzioni domestiche, rendendole più trasparenti e meno clientelari, riducendo il peso dello Stato nell’economia. Il grande interrogativo, però, è se ci siano o meno l’intenzione e la disponibilità per farlo.

La crisi argentina è diversa da quella europea?
Sono due situazioni molto diverse, anche se l’Argentina può insegnarci una cosa. E cioè: pensare che il default sia una facile scappatoia con cui abbattere il peso del debito e al contempo svalutare la moneta per ritornare a crescere è un’illusione. L’Argentina non è ancora ritornata al livello di reddito pro capite che aveva prima del default che si è verificato 12 anni fa. Bisogna puntare, piuttosto, anche in Europa e soprattutto in Italia, su interventi mirati a restituire competitività al sistema paese. Come ha fatto la Germania che negli anni Novanta era in crisi, ma dal 2003 è tornata a crescere.

@rigaz1

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3 commenti

  1. clemente

    Se uno fa debiti, la colpa non è del creditore, ma sua.
    Non faccia debiti e non ha problemi con le banche!

  2. blues188

    Se nell’articolo si sostituisce la parola ‘Argentina’ con Italia, non ci sono altre differenze. Anche in Italia lo statalismo è enormemente invadente e oppressivo. Quanto personale (e guarda un po’ quasi completamente di origine meridionale, o – per dirla come loro- di ‘origgine meriddionale’) c’è di troppo nelle strutture statali? E pur con quella massa ingombrante, le cose funzionano? Già il doversi porre la domanda è sintomatico di uno sfascio pressoché totale. Gente che viene assunta unicamente per provenienza, non per capacità. E sono costi altissimi riversati sui soliti noti, e sono macigni legati al collo di chi produce. E sono risorse sprecate. La prima colpa va lasciata alla scuole che sforna diplomati e laureati che vengono premiati unicamente per levarsi di torno gente che altrimenti non avrebbe futuro. Nessuna selezione produce inetti al lavoro, che lo Stato si accolla per giustificare un Sud improduttivo e inefficiente come solo pochi (leggi nessuno) sanno fare. Gli sprechi napoletani e siciliani la dicono lunga. E non è questione di Dx o Sx, ma di mancanza di mentalità orientata al lavoro (quello vero, faticoso).

    1. Giulio Dante Guerra

      Non è vero che tutti i dipendenti pubblici sono degli scaldaseggiole. Ci sono, e forse in maggioranza, anche quelli che il lavoro che viene richiesto loro lo fanno. Il guaio è che, nella stragrande maggioranza dei casi, questo lavoro non serve a nulla: sono pratiche inutili, che ritardano – nell’esempio che io conosco, l’amministrazione centrale del CNR, e più estesamente del MIUR – lo svolgimento della ricerca scientifica, e, nel secondo caso, l’efficienza di tutto l’insegnamento, dalle elementari all’università. Quanto alla ricerca scientifica, sarebbe l’unico mezzo per essere competitivi in quest’epoca della globalizzazione: in altre parole, ricominciare a produrre – come ai tempi di Giulio Natta, che inventò il polipropilene isotattico, e della Montecatini, che lo produsse industrialmente e lo commercializzò col nome di Moplen – le cose utili che gli altri non sanno fare. Purtroppo, alle industrie italiane di oggi manca questa cultura dell’innovazione, e il governo non l’aiuta certo a rinascere, rifiutando sistematicamente di detassare, p.es., gli utili investiti o nella ricerca propria, o nel finanziamento di quella pubblica del settore.

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