La morte di Archie, il mistero dell’amore tradito dall’ideologia

Giudici e medici londinesi hanno derubato l’umanità di un altro dono di Dio, hanno derubato la società di un’esperienza di bene che avrebbe diffuso altro bene per tutti. Hanno esercitato un potere illegittimo

Archie Battersbee con la mamma Hollie Dance. Il ragazzino è morto due ore dopo la sospensione dei supporti vitali decisa da medici e giudici inglesi (foto Ansa)

Dopo Charlie Gard e Alfie Evans, adesso Archie Battersbee. Il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord si è ormai specializzato nell’eliminazione fisica di bambini disabili. Dal paese di William Shakespeare, di Thomas Stearns Eliot, di Roger Scruton ci si aspetterebbero standard diversi, e invece a prevalere ora e sempre è l’utilitarismo di Jeremy Bentham e di John Stuart Mill.

Perché una cosa deve essere ben chiara: non c’è niente di laico, niente di neutrale, niente di obiettivo nelle decisioni dei giudici dell’Alta Corte e dei medici del Royal Hospital di Londra.

Anche per Archie una sentenza ideologica

La valutazione (trasformata in sentenza giudiziaria) secondo cui la vita di un bambino in stato di coma persistente non merita di essere tutelata è profondamente ideologica, rappresenta l’imposizione del modello di pensiero epicureo-utilitarista alla società tutta intera, senza rispetto per il pluralismo delle identità culturali e religiose, e senza rispetto per la realtà delle cose, che una ragione non puramente strumentale ma giustamente sapienziale coglierebbe facilmente.

Per i giudici e per i medici londinesi esistono soltanto le percezioni sensoriali dell’individuo singolarmente inteso, artificialmente separato dai suoi cari e dai rapporti sociali. L’essere umano è un pezzo di carne percorso da sensazioni: se non ci sono più percezioni sensoriali (secondo lo stato dell’arte della scienza medica, che potrebbe benissimo sbagliare, come dimostrano i casi di alcuni “risvegliati” dal coma), se la persona non può più fare l’esperienza soggettiva del piacere, è inutile fare sforzi, spendere soldi, dedicare energie a mantenerla in vita.

L’essere umano è sempre dipendente

All’establishment britannico del XXI secolo sfugge che l’essere umano è sempre un soggetto in relazione, è sempre dipendente da altro e da altri, è sempre un “io sono tu/Tu che mi fai”. Il singolo non è autosufficiente anche quando non è gravemente malato, anche quando non è in condizioni di non autosufficienza motoria. I giudici e i medici che si sono sentiti in diritto di “staccare la spina” ad Archie sono non autosufficienti tanto quanto lui, anche se si nota di meno: ma senza il sostentamento di madre terra, senza la società di cui fanno parte e senza la trama di rapporti affettivi delle loro famiglie e amicizie sarebbero nulla.

L’evidenza della relazionalità degli esseri umani (e di tutti i viventi) non smentisce soltanto l’errore di distinguerli fra autosufficienti, e perciò pienamente umani, e non autosufficienti, perciò non più pienamente umani. Ma mette pure in questione l’asserzione secondo cui se un soggetto non può più provare sensazioni fisiche piacevoli, allora il suo miglior interesse è morire. Chi ha stabilito questo dogma, su quali basi?

Archie, Alfie, Charlie, vittime di una presunzione moralista

Se l’essere umano è essere relazionale, i criteri per valutare la misura della sua autorealizzazione non possono prescindere da questa sua natura profonda. La realizzazione di sé non può non tenere conto che il soggetto è, intrinsecamente, un “essere-per-altri”, realizza la sua pienezza nella relazione con gli altri, così come è grazie agli altri che lui è.

E Archie, Alfie, Charlie e tutte le altre vittime dei presuntuosi moralisti britannici d’oggidì hanno dimostrato a questo riguardo una capacità di incidere sulla realtà, di cambiare i cuori, di generare socialità, di alimentare affetti, attraverso la loro involontaria ma realissima oblatività, che i loro carnefici non possono nemmeno sognarsi.

Ma la missione di Archie è compiuta

Archie in stato di coma profondo che comunica col mondo attraverso i suoi genitori, che solleva solidarietà e indignazione, che suscita le testimonianze delle famiglie le quali hanno qualcuno dei loro cari nelle sue stesse condizioni di salute, che scuote le coscienze e costringe a prendere posizione, è molto più vitale e socialmente attivo di chi ha deciso la sua eliminazione; la sua missione nel mondo che va dai suoi più stretti familiari al pubblico internazionale anonimo è potentemente compiuta.

Archie in stato di coma dal 7 aprile scorso ha compiuto la missione che da quel momento era la sua: avvicinare fra loro le persone, generare unità fra i genitori e fra gli amici, far riscoprire che nella vita non conta l’avere di più ma l’amare di più, che il darsi e il dedicarsi a una persona che pure non può più dire “grazie” dilata l’esperienza della propria umanità al di là dell’immaginabile.

La cecità dei giudici innanzi al “capitale sociale”

Se giudici e medici britannici uscissero un po’ dal loro ripiegamento individualista utilitarista epicureo, così caratteristico del neocapitalismo postmoderno, scoprirebbero che il mondo è pieno di piccole famiglie e di piccole comunità che si prendono cura di malati – di tutte le età – in condizioni analoghe a quelle di Archie Battersbie, e che questo fatto ha generato e genera quello che, con una definizione freddamente sociologica, si chiama “capitale sociale”; un capitale sociale (cioè vantaggioso per la coesione della società) fatto di propensione alla solidarietà, alla cura dei più deboli, alla reciprocità, alla comprensione, all’inclusione, allo spirito di sacrificio, insomma a quello che nel Vangelo viene chiamato “amore per il prossimo”, e che le élites del Regno Unito, paese che pure è dotato di una Chiesa di Stato che dovrebbe ricordarglielo, non riescono più a capire e a riconoscere quando si presenta.

Fa parte in misura decisiva del capitale sociale che una classe dirigente accorta, non ripiegata in una visione consumista-epicurea condannata a disgregare la società, dovrebbe preoccuparsi di tutelare e promuovere anche l’opportunità di esperienza soprannaturale e di prossimità a Dio che i piccoli come Archie offrono al mondo.

Come Mounier davanti all’altare dei piccoli malati

Il primo nei tempi moderni a proporre la similitudine fra l’ostia consacrata e il malato in stato di ridotta coscienza o di incoscienza persistente è stato Emmanuel Mounier, la cui figlia Françoise fu colpita da una grave forma di meningite. Scrisse Mounier: «Sento una grande stanchezza e una grande calma mescolate insieme, sento che il reale, il positivo sono dati dalla calma, dall’amore della nostra bambina che si trasforma dolcemente in offerta, in una tenerezza che l’oltrepassa, che parte da lei, ritorna a lei, ci trasforma con lei, e che la stanchezza appartiene soltanto al corpo che è così fragile per questa luce e per tutto ciò che c’era in noi di abituale, di possessivo, con la nostra bambina che si consuma dolcemente per un amore più bello. (…) Ho avuto la sensazione, avvicinandomi al suo piccolo letto senza voce, di avvicinarmi ad un altare, a qualche luogo sacro dove Dio parlava attraverso un segno. Ho avvertito una tristezza che mi toccava profondamente, ma leggera e come trasfigurata. E intorno ad essa mi sono posto, non ho altra parola, in adorazione».

Chi fa quell’esperienza di adorazione scopre la profondità del proprio essere e ama di più, con verità, il prossimo. Giudici e medici londinesi hanno derubato l’umanità di un altro dono di Dio, hanno derubato la società di un’esperienza di bene che avrebbe diffuso altro bene per tutti. Hanno esercitato un potere illegittimo, di cui dovranno rendere conto.

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