Pubblichiamo la rubrica di Maurizio Tortorella contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Le manfrine politico-giudiziarie del congresso dell’Associazione nazionale magistrati possono lasciare perplessi. Sui giornali, nella tre giorni barese del sindacato delle toghe, si è letto tutto e il contrario di tutto. All’inizio il presidente dell’Anm, Rodolfo Sabelli, e i suoi colleghi hanno sparato a zero sul governo Renzi imputandogli «norme poco incisive contro la corruzione», «una precisa strategia delegittimatoria» (riferendosi probabilmente alla risibile riforma della responsabilità civile dei magistrati varata a febbraio), e perfino «il tentativo di ridimensionamento del suo ruolo istituzionale e di rappresentanza della magistratura».
Poi al congresso è arrivato il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. E ha detto due cose: che il governo «considera l’Anm un interlocutore rappresentativo ed essenziale» e che «non troverete mai in me una parola demolitoria del ruolo di chi è chiamato a rappresentare la magistratura». Praticamente, ha annunciato un disarmo unilaterale: il governo non farà nulla che possa in qualche modo spiacere all’Anm. Quindi è scoppiata la pace. Sabelli ha specificato che le sue critiche non si riferivano al governo. Giovanni Legnini, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, ha saggiamente precisato che «la giustizia italiana non ha bisogno di una nuova stagione di scontro tra magistratura e politica». Il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, ha chiuso il cerchio sottolineando che «il lavoro dei magistrati viene fatto per il bene supremo del Paese» e che «ai magistrati in prima linea va tutta la nostra gratitudine».
Questo minuetto andava in scena a Bari, in un agitato fine settimana di fine ottobre. Intanto a Palermo, a poco più di 600 chilometri di distanza, continuava a crescere l’ondata di guano che dal 9 settembre si è abbattuta su alcuni magistrati, indagati per corruzione, induzione alla corruzione e abuso d’ufficio dalla Procura di Caltanissetta.
Il caso che li coinvolge è forse il peggiore scandalo giudiziario nella storia repubblicana: Silvana Saguto, da anni presidente della Sezione misure di prevenzione, cioè l’ufficio del Tribunale di Palermo che gestisce i beni sottratti a Cosa nostra, è accusata insieme con alcuni colleghi di avere affidato l’amministrazione giudiziaria di quei beni (e si parla di decine di miliardi di euro) ad amici e sodali. Si ipotizzano scambi e favoritismi di vario genere. Sui giornali (non molti, a dire la verità) si inizia a leggere perfino di presunte tangenti. Nelle intercettazioni si ascolta di tutto: perfino di debiti da 18 mila euro accesi e per tre anni non saldati presso un supermercato, per l’appunto sequestrato a mafiosi.
Su questo, intenti com’erano a discutere di “delegittimazione” e “ridimensionamento di ruoli”, i magistrati sindacalizzati dell’Anm e i politici di governo hanno posato il classico velo. Nel documento finale, sul “caso Saguto” è stata inserita qualche frasetta obbligata. Del tipo: «Gli organi statutari e istituzionali competenti esercitino tempestivamente i loro poteri di vigilanza e intervengano per adottare i conseguenti provvedimenti». Ma dall’emersione dell’inchiesta è trascorso un mese e mezzo. E il Csm non ha detto beh. Il ministro ha blandamente annunciato un’ispezione. La procura generale della Cassazione non si sa cosa stia facendo.
Dimissioni? Almeno sospensioni cautelari? No, neanche a parlarne. Il giudice Saguto ha chiesto e ottenuto di essere spostata alla sezione penale del medesimo Tribunale di Palermo, prima di mettersi in malattia.
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