
Anche i premi nobel hanno il problema della prima casa
Quando un regime confina agli arresti domiciliari una persona e la costringe a non uscire di casa per 15 anni, lo fa per togliersi di torno un avversario scomodo. E alla gente comune viene subito in mente il dramma del recluso, il rispetto dei diritti umani, la lotta per la democrazia, la resistenza. Nessuno pensa mai all’immobile, alla casa dove la persona viene rinchiusa. Sbagliando, perché a volte anche una dimora può rappresentare un problema. Aung San Suu Kyi, donna coraggiosa, premio nobel per la Pace, fondatrice e leader della Lega nazionale per la democrazia, icona della lotta al regime, che ha vinto le elezioni democratiche del 1990 in Myanmar e che per questo è stata confinata agli arresti domiciliari, ha abitato per tutti i 15 anni, e oltre, a Rangoon, in via dell’università 54, nella casa di famiglia. Ma di chi è la casa dove ha risieduto per così tanto tempo? Sua, forse.
Già, forse, perché il fratello di Aung San Suu Kyi, Aung San U, che vive negli Stati Uniti dal 1973, ha portato in tribunale la sorella per rivendicare i suoi diritti su quella casa, di cui vuole possedere il 50 per cento. Come si dice, fratelli coltelli. La battaglia giudiziaria per la bellissima villa coloniale, proprietà del padre Aung San, eroe dell’indipendenza birmana morto nel 1947, va avanti da 12 anni e ora il Tribunale l’ha data vinta al fratello. Ma l’avvocato del premio nobel assicura che ricorrerà in appello.
Ma sarà solo un problema di proprietà immobiliare? I birmani sostengono di no. Nel 1988 tutti puntavano su Aung San U, sperando che diventasse la figura di riferimento per la battaglia birmana a favore della democrazia. Al contrario della sorella, però, si dice che il fratello non avesse un briciolo di carisma. Dopo che nel 1988 la madre dei fratelli, Khin Kyi, morì assistita dalla figlia, la residenza della casa fu assegnata a Suu Kyi. Proprio in quell’anno il fratello si proclamava direttore di una oscura organizzazione chiamata Fronte della Birmania libera. E mentre la reputazione della sorella cresceva nel movimento democratico, lui metteva in guardia contro i «profeti falsi e irresponsabili che giocano sulle emozioni degli indisciplinati». Non solo, si dice che sia stato il regime a convincere il fratello a intentare la causa nel 2000, quando Suu Kyi era agli arresti domiciliari, in cambio di alcuni privilegi.
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