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Amnistia. «Da quando il ripristino della legalità va subordinato a quel che pensa la “gente”?»

Il costituzionalista Pugiotto smonta, leggi alla mano, tutte le obiezioni all’amnistia invocata da Napolitano. E alla sinistra ricorda: «Barattare la sorte di tanti in cambio di quella di uno (Berlusconi) si chiama rappresaglia»

Francesco Amicone
19/10/2013 - 4:00
Interni
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L’8 ottobre il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ha chiesto formalmente al parlamento di occuparsi in tempi stretti del sovraffollamento carcerario. Dell’importanza del suo messaggio alle Camere parla dettagliatamente a Tempi Andrea Pugiotto, ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Ferrara, estensore della lettera aperta sull’amnistia e sull’indulto, consegnata l’anno scorso al capo dello Stato (foto a lato). Il 27 settembre 2012, Pugiotto guidò al Quirinale una delegazione dei 136 giuristi firmatari della lettera aperta (sottoscritta anche da Tempi), per chiedere a Napolitano di sollecitare il Parlamento, con un messaggio alle Camere, all’approvazione di atti di clemenza per i detenuti. A un anno da quell’incontro il capo dello Stato ha deciso di accogliere l’appello.

Professor Pugiotto, qual è il peso politico del messaggio alle Camere del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano?
Inviare messaggi a contenuto libero alle Camere è prerogativa presidenziale esercitata generalmente con grande parsimonia dagli inquilini del Quirinale. Lo stesso Giorgio Napolitano, nel suo primo settennato, non ne inviò alcuno. La circostanza che, ora, si sia determinato altrimenti già segnala la rilevanza istituzionale dell’atto. Aggiungo che il suo peso “politico” è direttamente proporzionale all’urgenza del problema: l’Italia deve fare fronte a una catastrofe ordinamentale – il sovraffollamento carcerario – che la Corte europea dei diritti certifica come «strutturale e sistemico», da risolversi non oltre il 28 maggio 2014. Cioè, a breve. Da ultimo, il Quirinale richiama le Camere a operare affinché l’ordinamento rientri nella sua legalità costituzionale: l’espressione «dovere costituzionale», infatti, ricorre più volte nel suo messaggio. E deputati e senatori  – come e più di tutti gli altri – sono vincolati al rispetto della Costituzione.

Quali sono i punti più importanti del messaggio?
Il messaggio ha una sua struttura sapiente. Motiva la ragione del suo invio (la condanna intervenuta l’8 gennaio scorso a Strasburgo, attraverso il «fatto di eccezionale rilievo» di una sentenza-pilota della Corte europea dei diritti) e l’urgenza conseguente a provvedere (entro il 28 maggio 2014). Ricorda gli obblighi che abbiamo assunto, come paese, aderendo al Consiglio d’Europa e alla Cedu, che ci impongono di adempiere ai giudicati della Corte di Strasburgo. Richiama i dettami costituzionali che disegnano una pena volta alla risocializzazione del reo e che mai può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Fotografa – dati alla mano – la realtà di carceri pieni fino all’inverosimile. Traccia le possibili linee guida per fermare la catastrofe, limitare i danni e risalire la china. Chiude, infine, il suo messaggio, confidando nel residuo di saggezza dei parlamentari che non potranno fingere di non aver sentito. In un messaggio così costruito, tutto si tiene. Specialmente nell’indicazione dei rimedi auspicati, che il presidente ha cura di indicare come sinergici e contestuali, «diverse strade da percorrere congiuntamente». Vedo che qualche capogruppo della maggioranza, invece, tende a differenziare le misure normative da assumere, collocando solo a fine corsa eventuali atti di clemenza generale che, invece, il capo dello Stato indica come i soli che «consentirebbero di raggiungere nei tempi dovuti il traguardo tassativamente prescritto dalla Corte europea». Forse, ha letto il messaggio con gli occhiali sbagliati.

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Del dovere parlamentare di esaminare e discutere il messaggio già ha detto. Ma il governo ha il dovere di dare una risposta al capo dello Stato?
Quanto al governo, la controfirma del presidente Letta va oltre il mero adempimento formale. Esprime piena condivisione della diagnosi e delle cure prescritte dal Quirinale. Le azioni dovranno essere conseguenti. Infatti, il sovraffollamento carcerario è una metastasi ordinamentale a causa di norme carcerogene, per lo più introdotte con decretazione d’urgenza. Così è stato per le cause ostative alle misure alternative alla detenzione, per l’obbligo di custodia cautelare in carcere, per le restrizioni detentive dei tossicodipendenti. A ciò occorre rimediare, in fretta, disinnescandole attraverso lo stesso strumento – il decreto legge – chiamato per Costituzione a risolvere situazioni straordinarie di necessità e urgenza, qual è l’attuale condizione carceraria. La strada è stata timidamente aperta dal decreto legge numero 78 del luglio scorso. Ora è necessario proseguire, con azioni coerenti alle parole del Quirinale.

Come giustificare – tenendo conto di quella parte dell’opinione pubblica che è contraria all’amnistia e all’indulto – gli atti di clemenza?
Mi scusi, ma da quando il ripristino della legalità costituzionale violata va subordinato alla doxa dominante? Da quando in qua la cosiddetta “gente” dispone dei diritti delle minoranze e del dovere di ripristinarli, specialmente se negati a soggetti in condizione di difficoltà? Forse è il caso di rammentare che anche il detenuto è persona titolare di diritti. È la tesi sposata dalla Corte costituzionale, quando afferma che «chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale» (sentenza n. 349/1993). Accanto a quel «residuo di libertà personale» (sentenza n. 526/2000) il soggetto detenuto conserva la titolarità di tutti gli altri diritti fondamentali non incompatibili con la sua condizione di ristretto. Di più. In un carcere sovraffollato fino all’inverosimile, è la stessa dignità umana a non essere più garantita. È il diritto ad avere diritti ad essere negato, nella sua forma più elementare.

Però gli atti di clemenza non godono di grande popolarità.
Guardi, è la stessa Costituzione “più bella del mondo” a contemplare, quali strumenti di deflazione giudiziaria e carceraria, l’amnistia e l’indulto. Sono strumenti di politica criminale che un legislatore cosciente della gravità della situazione dietro le sbarre può e deve assumere. È la soma che grava su chi ha potere e, dunque, responsabilità politica: guardare lontano, agire in funzione di un obiettivo, motivare la scelta fatta persuadendo i cittadini con razionalità. È certo più facile lisciare il pelo a un’opinione pubblica tutta chiacchiera e distintivo. Facendolo, però, la politica abdica al suo ruolo.

Quale, fra amnistia e indulto, è lo strumento da privilegiarsi nella situazione carceraria attuale?
Amnistia e indulto devono viaggiare insieme, perché una agisce sul reato, l’altra sulla pena. Amputare l’una dall’altro provocherebbe esiti rovesciati rispetto a quelli da perseguire. Il solo indulto obbligherebbe a celebrare inutilmente processi destinati a concludersi con la formula di rito “pena estinta per indulto”, con evidente dispendio di tempo e risorse. La sola amnistia non produrrebbe la necessaria decongestione delle carceri. Se è lecito, qui c’è – a mio avviso – il passaggio meno convincente del messaggio presidenziale alle Camere: laddove il capo dello Stato scrive che all’indulto «potrebbe» aggiungersi un’amnistia, o laddove parla della «opportunità» di adottare congiuntamente i due atti di clemenza. Avessi la facoltà di farlo, cambierei quel «potrebbe» in «dovrebbe» e quell’«opportunità» in «necessità». Gli effetti clemenziali deriveranno poi dalla loro ampiezza normativa. Ma questo, come riconosce lo stesso presidente della Repubblica, dipenderà dalle scelte sovrane del parlamento.

Come evitare che chi uscirà dal carcere si trovi nelle condizioni di compiere reati nuovamente e magari a pochi giorni dalla scarcerazione?
Qui è l’amministrazione della giustizia ad essere chiamata in causa. Spetterà al guardasigilli, in sinergia con le realtà (anche del terzo settore) che operano sul territorio, creare le condizioni ottimali per assorbire al meglio i detenuti che riacquistano la libertà. Certo, servirebbero fondi adeguati; quei fondi (penso, ad esempio, alla legge Smuraglia per il lavoro in carcere) che sono stati spesso negati o centellinati perché considerati sprecati e, comunque, impossibili da mettere a valore nel mercato del facile consenso elettorale. Essere miopi, alla fine, non sempre ripaga. È bene comunque osservare che – statistiche alla mano – il tasso di recidiva di chi beneficiò del’indulto del 2006 è stato più basso di quello comunemente registrato tra i detenuti: anche in forza della previsione normativa che faceva perdere lo sconto di pena concesso a chi, nei cinque anni successivi, fosse tornato a delinquere. Nella costruzione normativa dell’atto di clemenza, quindi, è possibile introdurre previsioni capaci di prevenire i rischi di una reiterazione nel reato. Ciò detto, il margine di rischio non è azzerabile. Se questo fosse l’obiettivo, l’unica soluzione sarebbe tenerli tutti dentro, per sempre, buttando via la chiave.

In quali tempi il parlamento dovrebbe arrivare a una decisione? Crede che vi arriverà?
In questa partita, i tempi non sono nella disponibilità delle Camere. La condanna subita a Strasburgo pone già l’Italia sotto osservazione da parte del comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, chiamato a monitorare quanto il nostro paese sta facendo per dare esecuzione alla sentenza Torreggiani: ai primi di novembre, ad esempio, il guardasigilli Cancellieri dovrà riferire in ambito europeo sullo “stato di avanzamento dei lavori”, se così posso esprimermi. La dead line coincide con un anno di tempo, a far data dal passaggio in giudicato di quella sentenza: 28 maggio 2014, come già ricordato. Se non rispettata, le migliaia di ricorsi pendenti a Strasburgo presentati da detenuti che subiscono nelle nostre celle un trattamento inumano e degradante arriveranno a sentenza. L’Italia sarà certamente condannata a equi indennizzi che, sommati, raggiungeranno una cifra davvero considerevole. Se non per amore della legalità, almeno concretissime esigenze di bilancio dovrebbero indurre a fare, e presto. Tenuto conto di tutto ciò, sarebbe razionale che il parlamento dedicasse un’apposita sessione dei propri lavori per incardinare, in modo coordinato e secondo una tempistica razionale, l’intero pacchetto di interventi normativi tratteggiati dal capo dello Stato. Che poi le Camere arrivino in tempo o meno, lo scopriremo solo vivendo.

Come si dovrebbero applicare amnistia e indulto? A chi?
Traduco la sua domanda, per ciò che cela: il senatore Berlusconi beneficerà degli atti di clemenza? È quanto da destra si spera, pensando però di caricare sulla legge di clemenza fardelli giuridicamente insostenibili. Tanto per capirci, gli sconti di pena dell’indulto non si possono cumulare come i punti al supermercato. E il loro leader si è già giocato il bonus che rischia anzi di perdere, venendo revocato di diritto se chi ne ha usufruito commette, nei successivi cinque anni, «un delitto non colposo per il quale riporti la condanna a pena detentiva non inferiore a due anni» (così l’art. 3, legge d’indulto del 2006). I tre disegni di legge in materia depositati in Parlamento includono reati individuati sulla base della loro pena edittale massima (4 anni per l’amnistia, 3-4 per l’indulto spingendosi a 5 per i soli detenuti in gravi condizioni di salute), asticelle abbondantemente superate da quelli per i quali il senatore Berlusconi (che gode di ottima salute) è stato condannato o è a processo. E ancora, l’inclusione nell’atto di clemenza di reati fiscali o contro la pubblica amministrazione andrà bilanciata (come nell’indulto del 2006) dalla conferma di tutte le pene accessorie, che non inflazionano né i tribunali né le carceri. Infine, la decadenza da senatore resterebbe sul tavolo, perché l’indulto – salvo disponga diversamente –estingue la pena, mentre la sentenza di condanna, quale titolo esecutivo, conserva immutata validità.

Anche il voto favorevole della sinistra a misure clemenziali sembra dipendere dalla circostanza che Silvio Berlusconi non ne benefici.
Come in un gioco di specchi, le reazioni sdegnate di sinistra all’idea di un provvedimento di clemenza appaiono altrettanto strumentali. Addirittura ciniche, laddove barattano il timore di un colpo di spugna per uno solo con la certezza quotidiana dello stoccaggio di 64.758 detenuti in 47.615 posti, come tanti pezzi di legno accatastati in una legnaia. È il trionfo per annessione del berlusconismo, titolo di un film già visto nel 2006, quando l’indulto fu osteggiato a sinistra perché promuoveva Previti dagli arresti domiciliari all’affidamento ai servizi sociali: eppure, senza quella clemenza così bistrattata, oggi dietro le sbarre la vita sarebbe inimmaginabile.

Braccio di ferro che c’è da vent’anni…
È esattamente così: dal destino fasto o nefasto del senatore Berlusconi parrebbe dipendere l’approvazione di misure clemenziali oramai indispensabili. Sarebbe ora di cambiare schema di gioco, specialmente quando la partita riguarda corpi e vite in un numero così considerevole. Barattare la loro sorte di tanti in cambio della sorte di uno solo ha un nome preciso: rappresaglia. Uno degli atti più vili che si possano commettere in guerra.

Tags: amnistiaandrea pugiottocarceriGiorgio NapolitanoSilvio Berlusconi
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