Mio caro Malacoda, tu che diresti di fronte a una persona sotto processo che fugge all’estero e si rifiuta di tornare in aula per il dibattimento che la riguarda? O meglio: che cosa ti aspetteresti che scrivessero i giornali italiani così attenti alle questioni di giustizia e al dovere per chiunque di sottoporsi ai suoi riti? Non pensi che si straccerebbero le vesti di fronte a un caso di evidente fuga? Di difesa “dal” processo invece che “nel” processo. Di mancato rispetto per la magistratura? Di spregio per il popolo nel nome del quale sono pronunciate le sentenze? Se poi consideri che la materia è grave, che c’è stata una condanna, un’assoluzione e poi la cancellazione dell’assoluzione e con ripetizione del processo… (un’altalena che pone qualche dubbio sul principio che le sentenze si rispettano. Non tutte, pare. Solo quella definitiva? Perché? È emessa da uomini particolarmente probi e infallibili più dei loro colleghi dei precedenti gradi di giudizio? Mah… bisognerà prima poi chiarire questa storia del rispetto e della critica, buona solo per i moralisti da un tanto al chilo. Non vorrei che – come ogni cosa sbagliata per principio – un giorno possa venire usata contro di noi).
Dunque, c’è una persona che ha deciso di non presenziare al processo che la riguarda e lo annuncia pubblicamente: dice di non voler «sfuggire» al nuovo dibattimento, «ma non torno in Italia perché non capisco». Che cosa non capisce? Non ti aspetteresti qui un’invettiva del giornalista-giustiziere che ricorda all’accusato il dovere del sottomettersi alla giustizia, il rispetto della Corte eccetera eccetera? Invece no, il cronista si è fatto in questo caso molto rispettoso (ci risiamo con il rispetto) e riferita senza commenti la versione dell’accusato, ascolta quella della vittima (dell’avvocato della famiglia), che ritiene la presenza dell’imputato “dovuta”, «per l’importanza del processo, ma anche per il rispetto (rieccolo, ndr) che si deve alla Corte e alla povera vittima della quale non si parla mai».
Sempre rispettosamente il cronista chiede conto all’avvocato dell’imputato di questa “fuga” e, rispettosamente, ne riporta l’assurda risposta: «Non sta fuggendo da alcunché». Ora, un po’ di pratica di linguaggio giornalistico ce l’abbiamo, e solitamente uno che deve essere in un’aula di tribunale italiana e si rifiuta di tornare dall’estero viene definito “fuggiasco”. Lui obietterà che è suo diritto difendersi anche così (ed è difficile dargli torto) ma chi lo ha fatto non ha certo, in questi anni, goduto del compunto rispetto della stampa. In questo caso invece, il cronista si fa portavoce anche della sua lezione di procedura penale e di garantismo: «Sono libero e presunto innocente. Ho sostenuto 86 udienze e in decine di occasioni ho presentato dichiarazioni spontanee, che altro dovrei dire o fare di più?». «L’abbiamo incontrato – ha aggiunto il suo avvocato. Non capisce come processualmente possa essere prima nero, poi bianco e ora di nuovo nero. Ha ribadito di essere innocente. La sua (quella di restare all’estero, ndr) è solo una scelta processuale».
Dimenticavo, l’accusa è omicidio, la condanna in primo grado di 26 anni, di cui 4 scontati prima della sentenza d’appello che l’ha dichiarato innocente. Niente nomi, la giustizia italiana non guarda in faccia a nessuno, non si accanisce ad personam. I giornalisti nemmeno. Mai insinuare che a volte c’entri la politica, meglio passare per fessi.
Tuo affezionatissimo zio Berlicche