
Al cuore si comanda. Ri-pensare l’amore oltre i giudici e gli hashtag di Obama

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Cosa sta accadendo oggi che non era mai accaduto prima? Oggi che maschio e femmina non esistono più, trionfa il paradigma #LoveIsLove e alla “pena d’amore” si va sostituendo la pena dei “diritti d’amore”? Forse non sarà un caso se un filosofo realista e cristiano posto nel cuore dell’Occidente irrealista e postcristiano, avverta oggi lo stesso senso di oppressione, di allerta e di “casa in fiamme” che sentivano agli inizi degli anni Trenta dello scorso secolo autori come Chesterton, Huizinga, Scheler e, prima di loro, Péguy e Bergson. E se negli anni Trenta l’Europa cadeva nella morsa della «coppia diabolica» (Bernard-Henri Lévy) di nazismo e comunismo, oggi il deserto totalitario è di nuovo in marcia. Di là con le terrificanti ideologia e carneficine dello Stato islamico. Di qua con l’euforia per il “cambiamento” dei connotati umani e il sonno della ragione.
Vittorio Possenti, classe 1938, è un pensatore che rivendica e pratica la fedeltà alla scuola dell’essere, del personalismo e del realismo conoscitivo. Ha insegnato filosofia politica a Cà Foscari e nello stesso ateneo di Venezia dirige da diversi anni il Centro di ricerca sui diritti umani. Membro del Comitato nazionale per la Bioetica, della Pontificia accademia delle Scienze sociali e della Pontificia accademia di San Tommaso d’Aquino. Alla vigilia del Sinodo sulla famiglia ha pubblicato I volti dell’amore.
Edito da Marietti 1820, il saggio rende onore ai maestri san Tommaso e Jacques Maritain, che l’autore incontrò a vent’anni nella sua ricerca filosofica. E grazie ai quali venne confermato nella razionalità del contenuto della fede cristiana. Ora, diversamente da Denis de Rougemont, un altro dei tanti autori cristiani che hanno “pensato” l’amore (suo un volume che per molti anni è stato un classico della ricerca storico-filosofica, L’amore e l’occidente), l’intento dichiarato da Possenti «non è di comporre una storia dell’idea di amore, ma una riflessione sul suo fenomeno, contando sulla meditazione personale». La scommessa è «dare voce a una filosofia dell’amore quale forza dinamica universale che tiene coeso il mondo e le cose nel loro crescere e declinare». Amore dunque, «come apertura della persona alla totalità dell’esperienza».
[pubblicita_articolo]Alla vigilia del Sinodo il cardinale Angelo Scola ha espresso con un certo vigore il suo imbarazzo rispetto a un contesto, anche ecclesiale, di «semplificazioni esasperate» e di «strumentalizzazioni» perfino di papa Francesco. «Ho l’impressione che si stia “pensando” poco. A tutti i livelli», dice Scola. È così? Ed è per contribuire alla ri-formazione di un pensiero che si scrive un saggio sull’amore?
Vi sono nell’opinione pubblica, in parte anche ecclesiale, semplificazioni non lievi dovute alla pressione con cui i media vorrebbero dettare alla Chiesa e al Sinodo l’ordine del giorno dei temi da trattare. Questo fenomeno implica varie conseguenze, la principale delle quali è che si sfuoca il senso fondamentale del Sinodo che ha come tema “Vocazione e missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo”. L’orizzonte espresso nel titolo richiederebbe un ripensamento della natura sacramentale del matrimonio cristiano e del suo compito ecclesiale e civile.
L’argomento è di enorme rilievo in quanto investe il nesso tra matrimonio naturale e matrimonio sacramentale. Spesso si è detto che il matrimonio sacramentale è quello naturale cui si aggiunge il sacramento. Ma le cose non sono così semplici, dal momento che il matrimonio naturale è spesso ricondotto a contratto e ogni contratto può essere rescisso per volontà dei contraenti. D’altro canto l’altezza del matrimonio sacramentale è tale che la fragilità umana stenta a pervenirvi, e anche questo aspetto merita considerazione, accompagnamento e cura misericordiosa. Il ripensamento a cui invita il cardinal Scola dovrebbe toccare la condizione reale del laico cristiano sposato, che per vari versi è notevolmente più difficile di quella del sacerdote. Nel caso di gravi difficoltà con la continuazione del proprio ministero il sacerdote può chiedere la riduzione allo stato laicale, mentre i coniugi non hanno vie d’uscita.
Professore, lei esamina “i volti dell’amore”. L’amore di eros, agape, philia. Di desiderio, sponsale, di dilezione, amicizia eccetera. Ma in sintesi, scrive lei, «amore è una rivelazione, chiara e misteriosa nello stesso tempo, del senso ultimo della vita». Ed è il «bell’amore». Perché questa idea di significato e di bellezza dell’affettività che percorre tutto il suo libro non sarebbe superata, nostalgica, disincarnata rispetto all’esperienza amorosa quale viene oggi raccomandata nel pensiero ben sintetizzato dal famoso #LoveIsLove di Obama, all’indomani della sentenza con cui la Corte suprema ha imposto a tutti gli stati americani il riconoscimento del matrimonio tra persone dello stesso sesso?
A mio parere la sentenza della Corte suprema americana in favore del “matrimonio” omosessuale, presa con la maggioranza 5 a 4 esattamente come la sentenza del 1973 sull’aborto, va molto oltre le competenze di un parlamento o di una corte costituzionale: non spetta infatti a queste istanze stabilire che cos’è o non è matrimonio. Siamo dinanzi ad un caso estremo di positivismo giuridico, in cui il diritto positivo finisce per distruggere quello naturale. È una conseguenza della filosofia liberale che ha da tempo invaso le società occidentali, ponendo indebitamente i diritti di libertà (veri o presunti) al primo posto. Il messaggio del presidente Obama non pare particolarmente illuminato per il rischioso e generico ricorso al termine love che finisce per includere tutto. In tal modo il senso autentico dell’amore sponsale e generativo viene avvilito, e può condurre – con l’intervento delle biotecnologie – a compromettere profondamente le nozioni di padre, madre e figlio. Comprendere che love is love è una generica tautologia richiede di meditare attentamente sulle varie forme di amore, non confondendole: questo è uno degli intenti di I volti dell’amore.
Il mondo è «un ospedale da campo» dice il Papa. E dappertutto, specie nel registro della denuncia e del risentimento esposto sui media, emerge questo “ospedale” che sembra documentare, per dirla con Freud, una sorta di drammatico “disagio di civiltà”. È la coda di quella “cultura del piagnisteo” di cui parlava Robert Hughes sul finire degli anni Ottanta per contrasto al cosiddetto “politicamente corretto”, o è qualcosa di peggio?
Il mondo come ospedale da campo è una dolorosa realtà, di cui rendono conto i media con dovizia: semmai rendono conto quasi solo di ciò, dimentichi che un albero che cade fa più rumore di una foresta che cresce. In ogni caso l’essere umano è homo patiens, un essere fragile e spesso sofferente che ha bisogno di cura e di accompagnamento. Su questa realtà incontestabile si innestano pretese abnormi che si travestono da diritti. Per Robert Hughes la cultura del piagnisteo è il cadavere del liberalismo degli anni Sessanta, è il frutto dell’ossessione per i diritti civili e dell’esaltazione vittimistica delle minoranze. Il disagio della civiltà attuale ha numerose cause, tra cui tutt’altro che secondaria è la diffusione di un umanesimo esclusivo che punta quasi soltanto alla prosperità intramondana, e che cerca un compimento nel tempo. Tutto ciò viene raggiunto a caro prezzo, poiché i singoli finiscono per trovarsi sempre più soli. In questo senso nell’ospedale da campo che è il mondo la Chiesa è chiamata non solo a esercitare la misericordia ma, e in modo intenso, a creare e irrobustire legami e affetti.
L’uomo europeo è facilmente istruibile all’indignazione per ogni vera o presunta ingiustizia. E in risposta alla ingiustizia è pronto a recitare il rosario delle regole, dei diritti e della legge. Ma anche no. Vive interconnesso e mira a distrarsi da tutto ciò. Sembra la contraddizione vivente di un’umanità, diciamo così, che “ha le pile scariche”. Sembriamo privi di risorse veramente affettive pur in un contesto in cui tutto ci parla di buoni sentimenti, di amore e sessualità liberati. Che ne pensa?
In un Occidente in cui prevale più il timore che l’apertura all’altro, si sperimenta la solitudine e la difficoltà a comunicare: comunicare e informare sono due processi non poco diversi. La società dei media e dei telefonini ci inonda di messaggi e informazioni, mentre non è detto che aiuti il comunicare tra soggetti. Una mia nipote è per qualche mese in Nord America e mi descrive la grande solitudine che ha riscontrato là nei rapporti umani. L’interconnessione permanente non è un rimedio e può anzi aggravare il sentimento di sentirsi soli e incapaci di convivere con se stessi. Come esseri umani abbiamo bisogno di momenti contemplativi, di purificare la memoria e soprattutto di governare la mente. Di particolare rilievo per l’equilibrio umano è la disciplina della mente (un tema caro al cardinal Martini). Incontriamo qui un obiettivo arduo che i giovani devono proporsi per dare ordine ai propri pensieri, non vivere solo nell’attimo fuggente, e non lasciar sbrigliare la fantasia in ogni direzione.
Sessualità liberata? Anche questo può avere un significato. Ma si può chiedere se attualmente la sessualità viene liberata nel modo giusto, o se il caos delle relazioni amorose che contrassegna la nostra epoca non disperda più che raccolga. Troppe persone vivono la fragilità dei legami e ne vengono fuori vulnerate e doloranti. Una sessualità liberata richiede un eros che riconosca la portata del desiderio sessuale, ma che progredisca verso forme più piene di eros.
È solo una vecchia e usurata semplificazione giornalistica quella dello scontro tra progressisti e conservatori all’interno della Chiesa, esistono sul serio una chiesa della pastorale e una della dottrina, della teologia contro la misericordia, o semplicemente tutte le interpretazioni mediatiche collaborano alla musica di fondo, quella per cui – ha detto il vescovo di Ferrara – «la società è contro la Chiesa» e perciò, per timore e per difesa, prevale anche dentro la Chiesa «il ragionare come ragiona il mondo»?
Confido che nella Chiesa non si arrivi mai a ragionare come ragiona il mondo, e non mi pare che oggi siamo a questo. L’opinione pubblica creata dai media non è in genere favorevole alla Chiesa per quanto concerne i valori e gli obblighi provenienti dalla fede cristiana. Questo atteggiamento tende a cambiare quando è in gioco la concreta attenzione all’uomo, e si chiede alla Chiesa di operare come infermiera e barelliera della società. Quanto alla semplificazione che contrappone progressisti e conservatori, essa non riveste significato ecclesiale. Credo che vescovi e fedeli nella stragrande maggioranza si rifiutino di farsi incasellare in questi schemi. Alcuni intellettuali non lo fanno, ma a mio parere senza veri motivi. In ogni caso il compito del Sinodo è proprio quello di coniugare pastorale e dottrina, di trovare il modo di comunicare con un linguaggio idoneo e parlante la verità sull’uomo e sulla famiglia.
Lei ha accennato al profondo impatto antropologico delle biotecnologie che tendono ad alterare i rapporti generativi e il carattere stesso della vita familiare. Può approfondire il tema?
È per me sorgente di preoccupazione che il Sinodo in corso, quasi catturato dai due noti problemi della comunione ai divorziati risposati e delle unioni omosessuali, sembri non dedicare attenzione alla questione biopolitica, decisiva per la società e la famiglia, in cui si intrecciano le spinte spesso disgreganti delle biotecnologie e un radicale individualismo libertario. Se si intende venire in soccorso del matrimonio e della famiglia, occorre porre apertamente e urgentemente a tema gli aspetti della fecondazione in vitro, dell’eterologa, dell’utero in affitto, dello statuto umano dell’embrione, dell’eugenetica e della selezione embrionale. In vario modo tutti questi eventi tendono a scalzare dalle fondamenta la paternità e la maternità, l’idea stessa di matrimonio e di filiazione, e il diritto del figlio di conoscere la propria origine. Le biotecnologie lasciate a se stesse favoriscono un compromesso etico postumanistico nel quale l’essere umano non ha altro senso che quello che la sua autonomia – ultimo ridotto dell’umano – gli assegna.
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