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Aiutiamoli a casa loro, sì. Ma prima che un Piano Marshall dovremmo portargli Gesù Cristo

Gheddo e i suoi missionari spiegano le quattro (vere) ragioni del sottosviluppo dell'Africa. E raccontano che il progresso comincia col Vangelo più che col denaro

Piero Gheddo
26/07/2017 - 13:17
Chiesa
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piero-gheddo-africa-1985

L’arrivo quotidiano nei porti italiani di centinaia e migliaia di migranti africani è diventato un problema drammatico, quasi da incubo, che l’Italia da sola non può risolvere. Però si è trovata la soluzione: “Aiutiamoli a casa loro”. Uno slogan che mette tutti d’accordo. Come la proposta di varare un “Piano Marshall” per l’Africa nera. Vediamo.

Dal 1947 al 1953 gli Stati Uniti lanciavano il Piano Marshall, 20 miliardi di dollari per i paesi dell’Europa occidentale distrutti dalla guerra, che vennero restituiti con l’interesse dell’1 per cento. Il Pew Research Centre di Washington ha calcolato che nei 50 anni dell’indipendenza africana (1960-2010), i doni, gli aiuti e i finanziamenti del “Piano di sviluppo” per l’Africa nera sono stati di 300 miliardi di dollari. Perché questo diverso rendimento? Perché i popoli europei erano preparati da tutta la loro storia, cultura e religione, a far fruttare il denaro lavorando e fondando nuove industrie; i popoli africani, per la loro storia e cultura tradizionale, pur con diversi valori apprezzabili, non avevano in sé il germe dello sviluppo, non erano preparati a svilupparsi da soli.

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Le quattro cause del sottosviluppo africano

Nel 1969, in Tanzania, intervistavo padre Pietro Bianchi, missionario della Consolata, in Africa da una vita. Si commuoveva quando parlava dello spirito africano che ama la vita e soprattutto della fede, semplice ma viva e spesso eroica, dei cristiani. E diceva: «Qui in Africa c’è una riserva di umanità, che è offerta ai nostri popoli cristiani da duemila anni, per i quali la fede è ormai un lucignolo fumigante». Le cause del sottosviluppo africano, mi diceva, sono quattro:

  • La religione e cultura animista, che tiene la maggioranza degli africani prigionieri di superstizioni, tabù, malocchio, timore di vendette, culto degli spiriti, a volte con violenze anche su “stregoni” degli spiriti maligni.
  • L’analfabetismo e la mancanza di scuole. Gli analfabeti in Africa sono sul 35-40 per cento e con gli “analfabeti di ritorno” più del 50 per cento. Nell’Africa rurale le scuole valgono poco, spesso con 60-70 alunni per classe.
  • Il tribalismo e la corruzione della vita pubblica, fino ai minimi livelli. Il potere politico (e ogni altro potere pubblico) sono intesi, in genere, come occasione per arricchirsi e aiutare la famiglia, il villaggio, l’etnia. Il concetto di bene pubblico si sta formando, ma è normale che manchi in nazioni nate poco più di un secolo fa, con i confini tracciati dalle potenze militari europee.
  • I militari sono la prima casta di potere, controllano la politica e l’economia, abusano della forza in tanti modi (anche facendo guerre tribali o territoriali), sono implicati in commerci illegali, eccetera.

Per capirre l’Africa nera, bisogna ripartire dai secoli della deportazione di schiavi neri verso le colonie americane dei paesi europei e nel Sud degli Stati Uniti. Questo è il marchio d’infamia per l’Europa cristiana e per i popoli africani rimane un capitolo umiliante della loro storia. Nel 1884-1885, al Congresso di Berlino le potenze europee si spartivano il continente nero. I popoli sotto il Sahara vivevano ancora in un’epoca preistorica, cioè senza lingue scritte. In poco più di cent’anni, con due guerre mondiali in mezzo, la colonizzazione ha portato l’inizio dello sviluppo (strade, scuole, ospedali, lingue coloniali e locali scritte, eccetera), però lo scopo primario non era di educare i popoli a fare da soli, ma di arricchire la madre patria.

Oggi, l’Occidente ignora (o giudica ininfluenti per lo sviluppo) la storia e i fattori culturali, educativi, religiosi dei popoli neri, che danno all’uomo la sua identità, il senso di appartenenza, le motivazioni per vivere e agire. Si parla solo e sempre di fattori economici e commerciali e di rapina delle risorse naturali. I missionari, in genere, ritengono le quattro cause fondamentali per spiegare il sottosviluppo africano.

«Molti africani vivono nella paura degli spiriti”
In Angola, il 21 marzo 2009 papa Benedetto XVI dice ai vescovi angolani: «Tanti dei vostri concittadini vivono nella paura degli spiriti, dei poteri nefasti da cui si credono minacciati. Disorientati, arrivano al punto di condannare bambini di strada e anche i più anziani, perché – dicono – sono stregoni». I vescovi africani ne parlano spesso, ma era la prima volta che una personalità a livello mondiale ricordava questa radice superstiziosa e culturale che impedisce lo sviluppo. Il vescovo di Dundu in Angola, monsignor José Manuel Imbamba, in conferenza stampa dichiarava ai giornalisti: «Siamo felici che il Papa abbia parlato di questo argomento, perché è un problema che divide le famiglie, genera ignoranza e frena lo sviluppo individuale e sociale».

Don Benvenuto Riva, sacerdote “Fidei Donum” della diocesi di Milano, ha vissuto 20 anni in Zambia e oggi è parroco a Pieve Emanuele (Milano). Ha pubblicato un volume con i ricordi della sua missione: Tu bianco, tu non puoi capire (Milano, Marna editore, 2012, pagg. 127), nel quale documenta la doppia vita che vive la maggioranza degli africani, a volte anche battezzati. Il culto degli spiriti sopravvive con l’istruzione, la vita moderna, la fede in Cristo e rappresenta, secondo l’esperienza di don Benvenuto, il maggior ostacolo alla crescita anche politico-economica del continente nero!

Il Premio Nobel per la Letteratura, Vidia Naipaul, nel suo volume La Maschera dell’Africa (Adelphi, 2010, pagg. 290) racconta la sua inchiesta in Africa (dal marzo 2008 al settembre 2009), alla ricerca delle radici religiose e culturali dell’Africa nera. In un anno e mezzo, visita sei paesi di lingua inglese (compreso il Sud Africa) e documenta che «le pratiche magiche sono diffuse in maniera uniforme». Naipaul, «da non credente quale sono», incontra e parla con scrittori, uomini politici, professori universitari, giornalisti e molta gente comune, e documenta come proprio quelle credenze sono radicate nella cultura e mentalità di molti, e sono un forte ostacolo allo sviluppo.

Scrive: «L’africano medio ha molta paura della religione pagana e questa resiste… le credenze religiose e le pratiche culturali sono strettamente legate: le credenze religiose determinano la cultura». Sono realtà che non si possono ignorare – scrive Naipaul (molto contestato dalla stampa di sinistra europea e nord-americana) – senza nulla togliere alla dignità, all’intelligenza, bontà e cordialità dei singoli africani. Semplicemente, non hanno ancora avuto il tempo, come popoli, d entrare pienamente nel mondo moderno.

«La povertà degli africani è che non conoscono Cristo»
In Costa d’Avorio, padre Giovanni De Franceschi del Pime si è affermato come studioso della tribù e della lingua dei Baoulé con diverse pubblicazioni su questa tribù maggioritaria nel paese. Ha imparato il baoulé, che richiede anni di impegno. In genere i missionari parlano il francese che è studiato e capito, almeno nei termini e concetti comuni, da buona parte degli africani, ma padre Giovanni mi dice: «Parlare e capire bene una lingua africana vuol dire penetrare nel loro mondo storico, tradizionale, religioso, conoscere i proverbi e le parabole, che sono la base della saggezza e della cultura popolare. La cosa più importante per il missionario e di sapere bene la lingua locale, che è l’anima di un popolo. Quante volte mi sono sentito dire dai cristiani: “Tu capisci bene quel che diciamo, la nostra mentalità, i nostri problemi. Ormai sei uno di noi”. Questo è il più bell’elogio che il missionario può attendersi dalla sua gente. Anche i pagani vengono ad ascoltarmi quando predico e parlano volentieri con me, mi invitano a bere il vino di palma, diventiamo amici, parliamo di tutti i loro problemi».

Ebbene, padre Giovanni De Franceschi ha scritto (“Cristo, la maschera, il tam-tam”, in Mondo e Missione, dicembre 1975):

«Noi cristiani non ci rendiamo conto di come la vita del pagano è una continua paura che gli vien messa dentro fin dall’infanzia: temono di aver fatto torto al feticcio, che il feticcio si vendichi per motivi misteriosi. Ho sentito parecchie volte delle persone adulte, colte, psicologicamente mature, dire: “Mi arriverà una disgrazia perché ho offeso il feticcio”. Sono convintissimi che la disgrazia gli capiti da un momento all’altro, ma non sanno cosa sarà. Vivono male. Il terrore psicologico può distruggere una persona.

Il dato di fondo è questo: il paganesimo non conosce Dio e il perdono di Dio. Non sanno che Dio è un Padre amorevole che ci vuole bene e ci perdona. Pensano Dio come lontano, misterioso, inconoscibile, vendicativo. Il cristianesimo è libertà, gioia, amore, fiducia nel Padre, liberazione da tutte le paure… Il primo passo verso lo sviluppo è liberare l’uomo dalle paure antiche, dal terrore del feticcio, rivelargli l’amore di Dio che lo rende libero e gioioso. Sono convinto, per esperienza personale, che il maggior contributo che noi missionari portiamo allo sviluppo dell’Africa non sono gli aiuti economici o le scuole o gli ospedali (tutte cose indispensabili), ma la rivelazione dell’amore di Dio in Gesù Cristo per tutti gli uomini».

Nel 2008 a Maroua, in Camerun, ho intervistato padre Giovanni Malvestìo, da otto anni rettore del seminario maggiore del Nord Camerun, che mi dice: «Ci vorrà ancora tempo perché la cultura cristiana superi quella pagana anche nei nostri seminaristi, giovani entusiasti della fede e pieni di buona volontà. Il seminarista nato da una famiglia cristiana ha una serenità di spirito, è in pace con se stesso, col latte materno ha ricevuto la fede, l’amore a Dio e a Cristo, la fiducia nella Provvidenza; il seminarista battezzato a 15 anni è figlio di una famiglia pagana, il suo terreno di cultura è pagano, non puoi cambiarlo in pochi anni».

«L’uomo è il protagonista dello sviluppo, non il denaro»
Giovanni Paolo II descrive l’esperienza della Chiesa nella Redemptoris Missio (n. 58):

«Lo sviluppo di un popolo non deriva primariamente né dal denaro, né dagli aiuti materiali, né dalle strutture tecniche, bensì dalla formazione delle coscienze, dalla maturazione delle mentalità e dei costumi. È l’uomo il protagonista dello sviluppo, non il denaro o la tecnica… La Chiesa educa le coscienze col Vangelo… forza liberante e fautrice di sviluppo…».

Benedetto XVI nella Caritas in Veritate scrive:

«L’annunzio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo» (n. 8). «Il Vangelo è indispensabile per la costruzione della società secondo libertà e giustizia» (n. 13). «Senza la prospettiva di un vita eterna, il progresso umano è esposto al rischio di ridursi al solo incremento dell’avere» (n. 11). «L’uomo non è in grado di gestire da solo il proprio progresso, perché non può fondare da sé un vero umanesimo… L’umanesimo che esclude Dio è un umanesimo disumano» (n. 78).

Papa Francesco, nella Evangelii Gaudium, cita Paolo VI quando tratta della «dimensione sociale dell’evangelizzazione» (n. 176); e poi scrive (n. 178): «Dal cuore del Vangelo riconosciamo l’intima connessione tra evangelizzazione e promozione umana»; e cita ancora (n. 181) la Populorum Progressio e la Evangelii Nuntiandi, dove Paolo VI «proponeva (il Vangelo) in relazione al vero sviluppo umano, ogni uomo e tutto l’uomo». Nella Sollicitudo rei socialis (1987) Giovanni Paolo II scrive (n. 41): «Quando la Chiesa adempie la sua missione di evangelizzare, essa dà il suo primo contributo alla soluzione dell’urgente problema dello sviluppo».

Nella mia lunga vita di missionario-giornalista (di cui ringrazio il buon Dio e i miei Superiori), ho visitato più volte i paesi nei quali il Pime è impegnato, e poi ne ho scritto la storia. Mi è apparso evidente che quei popoli, convertendosi a Cristo, hanno fatto un balzo in avanti nel loro faticoso cammino verso la pace e lo sviluppo umano. Insomma, i Dieci Comandamenti e la vita di Gesù Cristo (cioè il Vangelo) sono i manuali del vero sviluppo umano.

ze-fumagalli-guinea-bissau

In Guinea Bissau, padre Ze Fumagalli racconta
Padre Giuseppe “Ze” Fumagalli, in Guinea Bissau dal 1968 e sempre nella tribù dei felupe (dei quali ha scritto la lingua, pubblicando opuscoli e libri) racconta:

«Quando i felupe diventano cristiani, migliora la loro vita, sia personale che familiare e di villaggio. Alcuni esempi concreti. Normalmente i cristiani sono quelli che rispettano di più la donna e i bambini… Noi insistiamo moltissimo sul mandare i figli e le figlie a scuola. Ma il 90 per cento delle bambine che vanno a scuola sono cristiane o figlie di catecumeni. Qui tra i felupe la donna serve per la riproduzione, il lavoro e il piacere dell’uomo. Questo non significa che l’uomo non le vuole bene, ma ha di lei l’immagine di una persona che è al suo servizio. Fin che la donna è giovane, tutto va bene. Ma quando diventa vecchia o ammalata, allora il marito la manda via e ne prende un’altra, senza doverle nulla. O anche se non la manda via, la mette da parte. Per cui la donna sposata è sempre sul chi va là, per timore di essere ripudiata e quindi non avere più di che vivere ed essere disprezzata da tutti. Invece, la moglie cristiana sa che, anche quando si ammala o diventa vecchia, il marito la tiene lo stesso e le vuole bene. Il fatto che si siano sposati in chiesa vuol dire che il marito ha promesso solennemente davanti a Dio e alla comunità cristiana di comportarsi bene con la moglie. Domani, in caso di necessità, potrà sempre essere richiamato al suo dovere. Così la donna cristiana dice lei stessa che è molto più tranquilla di quella non cristiana» (da Piero Gheddo, Missione Bissau. I cinquant’anni del Pime in Guinea Bissau (1947-1997), EMI 2007).

Il Vangelo apre il cuore e le menti, porta lo sviluppo anche economico e lo spirito di perdono e di pace. In Guinea Bissau i missionari del Pime lavorano dal 1947. Nella tribù dei felupe (nord ovest del paese), il primo missionario, il toscano padre Spartaco Mamugi, era presente dal 1952, quando i felupe vivevano ancora secondo la loro tradizione: la quale, ignorando il perdono delle offese, aveva creato una situazione di guerra continua fra villaggi e clan.

Padre Fumagalli è sul posto del 1968 e dice:

«In passato fra i villaggi di questa tribù c’era un perenne stato di inimicizia e di guerra. Si combattevano con archi, frecce e coltellacci, imboscate nelle campagne, si ammazzavano per nulla. I villaggi erano difesi, si viveva nel terrore di assalti notturni. In un’inchiesta fatta nel 1996 sul tema “Chiesa-famiglia”, la gente ha discusso ed ha dato risposte. Tutti riconoscono che il cristianesimo ha fatto superare le antiche inimicizie tra i villaggi e le famiglie. Un’anziana dice che quando lei era bambina, i suoi genitori non la portavano nel villaggio vicino, perché era considerato nemico. “Oggi, dice, i bambini giocano assieme e questo è grazie a Gesù”.

Un uomo ha testimoniato che nel 1979 e 1981 doveva esserci la guerra tra Edgin e Katòn per problemi di terre e proprietà di palmizi. In passato tra questi due grossi villaggi è corso molto sangue. I cristiani ed i catecumeni dei due villaggi nemici si sono intesi e hanno evitato la guerra. La gente dice che sono stati i cristiani a fare la pace. La cappella di Kassolòl è stata costruita sul campo di battaglia tradizionale. I capi (non cristiani) hanno concesso il terreno, perché: “Chi va con i preti non fa più la guerra, siamo tutti fratelli”».

Così padre Ze ha potuto costruire, con l’aiuto di parenti e amici di Brugherio (Mi), il lungo ponte in ferro che unisce su un fiume i due grossi centri.

Tratto dal blog di padre Piero Gheddo

Tags: africaangolacosta d'avorioemergenza profughiGuinea BissauimmigrazioneMigrantimissionaripiano marshall africapiero gheddoTanzaniazambia
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