Africa, non solo migranti. Disinnescare la bomba della mobilità è possibile

Di Rodolfo Casadei
03 Ottobre 2018
Fotografia di un continente in rapida crescita economica, ricco di materie prime e forza lavoro, ancora ostaggio degli errori dell'Europa. Gli interventi di Blangiardo, Mauro e Molteni a Milano
L'arrivo al porto di Palermo della nave "Sfinge", 7 Giugno 2014. A bordo dell'unita' della Marina Militare 367 migranti soccorsi ieri nel canale di Sicilia. Tra loro vi sono 52 donne, di cui una incinta e 45 minori. Ad attenderli la task-force organizzata dalla prefettura, il personale dell'Asp e del 118, polizia, carabinieri e assistenti sociali. ANSA/MIKE PALAZZOTTO

Difficile tenere la barra dritta e i nervi saldi quando in Italia a un evento pubblico si discute di immigrazione. Ma chi ha organizzato l’incontro “Africa, non solo migranti” – cioè l’associazione Esserci e Tempi – è riuscito nell’impresa grazie al profilo dei relatori invitati: il demografo e vice direttore del Dipartimento di Statistica dell’Università di Milano Bicocca, Giancarlo Blangiardo, l’ex ministro della Difesa ed ex vice presidente del Parlamento Europeo Mario Mauro, e l’economista e professore dell’Università Cattolica Mario Molteni, direttore esecutivo della Fondazione E4Impact che forma imprenditori africani.

FACEBOOK E MILIONI DI GIOVANI

«La mobilità di massa dall’Africa all’Europa a cui stiamo assistendo è il risultato di una somma aritmetica: conoscenza più indigenza», ha esordito Blangiardo. «Anche nei paesi africani più poveri il 10 per cento della popolazione è utente di Facebook. E l’Africa non è l’Albania, che ci ha messo quasi trent’anni per costituire una popolazione di migranti in Italia di qualche centinaio di migliaia di persone: in Africa vivono 1 miliardo e 287 milioni di abitanti, cioè 500 milioni più che in Europa; fra vent’anni saranno 1 miliardo e 200 milioni in più degli europei. Ogni anno si affacciano sul mercato del lavoro 25-30 milioni di giovani: se non trovano occupazione, non possono non pensare all’emigrazione. Certo, non bisogna lasciarsi spaventare dai numeri: già Thomas Malthus nel Settecento sosteneva che la popolazione cresceva più rapidamente delle risorse, e nel 1972 il Club di Roma pubblicò un catastrofico rapporto sui limiti dello sviluppo, che lanciava l’allarme sulla bomba demografica. Ma la bomba non è esplosa: il mondo è passato dai 3,8 miliardi di abitanti di allora ai 7,5 di oggi, che stanno mediamente meglio di quanto stavano i 3,8 di 46 anni fa, perché la produzione alimentare è cresciuta più rapidamente delle bocche da sfamare».

DIVIDENDO DEMOGRAFICO

«In Africa il Prodotto interno lordo (Pil) cresce a un tasso superiore a quello dell’incremento della popolazione, e questo è un fatto positivo. Ma i posti di lavoro non aumentano abbastanza rapidamente. L’Africa potrebbe sfruttare il suo attuale “dividendo demografico”, cioè il fatto che gli anziani che vanno sostenuti dal lavoro dei giovani sono pochi: mentre in Europa il rapporto è 1 a 3, in Africa è 1 a 12. Ma se non si creano posti di lavoro il dividendo va sprecato. Ci troviamo di fronte a paesi ricchi di materie prime e di capitale umano, dove scarseggiano i capitali finanziari che dovrebbero metterli in movimento».

IL MODELLO CIRCOLARE

«La mobilità mondiale è in piena ebollizione: i flussi migratori di oggi sono già superiori del 41 per cento a quelli dell’inizio del XXI secolo; la bomba demografica temuta dal Club di Roma non è esplosa, ma può esplodere la bomba della mobilità: flussi massicci e incontrollati potrebbero mettere in crisi sistemi politici, civili ed economici consolidati. Per evitare questo dobbiamo essere pronti a fare anche dei sacrifici economici. Non si può pensare solo di sbarrare la strada all’emigrazione: bisognerebbe studiare e mettere in pratica un modello di emigrazione circolare, nel quale l’africano viene in Europa per formarsi e per crearsi una rete di contatti ed opportunità, poi torna nel suo paese ad attivare un’attività imprenditoriale che sfrutta la rete creata. Sarebbe di grande vantaggio per africani ed europei».

UN TASSELLO DEL MOSAICO

Mario Mauro ha aiutato i presenti ad allargare la visuale del problema: «Anche in Africa si parla molto della questione migranti, ma non di quelli che partono per l’Europa: l’Africa ha un grosso problema coi migranti interni, che causano disordini e reazioni violente da parte della popolazione locale col loro arrivo in massa in alcuni paesi, soprattutto in Sudafrica. Non c’è alcuna mobilitazione dell’opinione pubblica sui temi che riguardano i migranti in Europa, e le famiglie sono contente quando qualcuno di loro riesce ad approdare sul nostro continente, perché garantirà rimesse e sarà un punto di riferimento per altri che avessero necessità di partire. Ma questo è solo un tassello del grande mosaico della rapida crescita economica dell’Africa, che ormai riguarda tutti i paesi, anche quelli più derelitti e devastati dalle guerre in passato. Ci sono ancora conflitti e tensioni in molte aree, ma su tutto domina la crescita costante dei Pil, trainati dal fatto che l’età media in tutti i paesi si aggira sui vent’anni».

LA FINTA EGEMONIA CINESE, L’INEDIA DELLA UE

«Sull’Africa circolano molte opinioni erronee. Una di queste riguarda il fatto che la Cina si sarebbe comprata il continente: non è così. Sommati insieme, gli investimenti dei paesi dell’Unione Europea (Ue), sono molto superiori a quelli cinesi. La Cina produce l’impressione di un’egemonia sull’Africa per un solo motivo: che i suoi investimenti seguono un preciso modello e una precisa strategia decisi dal Congresso del Partito comunista, che configurano il cosiddetto “modello Angola”. L’Angola, paese ricchissimo di materie prime che ha perso tre decenni a causa del conflitto interno post-coloniale, oggi è un partner ideale della Cina all’insegna delle parole d’ordine “Voi ci date le vostre materie prime, e noi cinesi costruiamo tutte le infrastrutture di cui avete bisogno”. Nella sua politica africana la Cina coinvolge anche pezzi di Europa: l’acquisto cinese del porto del Pireo si inserisce nel progetto della Nuova Via della Seta, ma è anche funzionale ai traffici con l’Africa».

OPERAZIONE ATALANTA

«Quando ha voluto, la Ue ha saputo intervenire in Africa e far valere i propri interessi. Pochi ricordano l’Operazione navale Atalanta che, iniziata alla fine del 2008, ha permesso di debellare le coste della Somalia e del Golfo di Aden dalla presenza di pirati e terroristi che rendevano impossibile la navigazione con continui sequestri di navi mercantili. Alla luce di questo esempio si resta sbalorditi del fatto che lo stesso approccio non sia stato utilizzato finora per trattare la questione delle migrazioni attraverso il Mediterraneo. La Ue ha virtualmente eliminato le frontiere interne, ma considera ancora il presidio delle frontiere esterne compito degli stati nazionali. Così di fronte ai problemi delle migrazioni di massa si comporta come quella donna di casa che asciuga con pezze e stracci l’acqua che ha invaso il pavimento della cucina, ma non ha ancora compreso che bisogna intervenire direttamente sulla perdita!».

LE RESPONSABILITÀ DELLA FRANCIA

«Ancora non sono stati debitamente messi a fuoco il ruolo e le responsabilità della Francia, paese che esercita grande influenza sulle sue ex colonie africane, al punto che molte scelte politiche ed economiche importanti di questi paesi sono in qualche modo il riflesso di deliberazioni prese nel Consiglio presidenziale per l’Africa nel quale Emmanuel Macron riunisce cittadini francesi con doppio passaporto di vari paesi africani. Sotto tutti i presidenti la Francia si è gelosamente riservata una politica africana che non è condotta d’intesa con la Ue o con gli altri paesi europei: basta ricordare cosa è successo col Niger, cioè l’ostruzionismo francese nei confronti della missione che l’Italia aveva in un primo momento concordato col governo nigerino. Mai nessun Consiglio europeo ha trattato esplicitamente le responsabilità della Francia in Africa, e anche in Italia le critiche alla politica francese sono numerose e intense, ma restano a livello informale».

MIGRANTI E SCAFISTI

«Se ci deve essere il piano Marshall per l’Africa di cui tanti parlano, non dovrà essere un piano centrato sulla quantità dei finanziamenti, ma sul valore delle scelte strategiche in base alle quali si fanno gli investimenti. Se devono servire solo per addomesticare governi africani e garantirsi basi militari, non serviranno né a noi né all’Africa. Che non va appiattita sul cliché delle classi dirigenti corrotte e della popolazione pigra: ci sono capi di Stato africani colti e bene intenzionati, così come c’è una grande vitalità nelle città africane che aspetta solo di avere sbocchi creativi. Da ministro della Difesa ho promosso l’operazione Mare Nostrum per salvare la vita di migliaia di persone in mare, ma non nell’ottica di alimentare il fenomeno e di trattarlo in forma assistenzialistica: mi sono sempre battuto perché le reti criminali che alimentavano il traffico di migranti venissero individuate e smantellate. È stato un errore da parte dell’Italia pensare che non era problematico far transitare nel nostre paese decine di migliaia di persone senza identificarle, perché tanto volevano raggiungere il nord Europa: oggi i paesi europei hanno chiuso le frontiere, e i migranti restano qui da noi. È stato un grande errore della Ue stringere accordi per bloccare la rotta balcanica delle migrazioni, senza contemporaneamente bloccare quella che passa dalla Libia. Alla luce anche di queste considerazioni, resta valido quello che Giovanni Paolo II disse nel 2004: “Costruire condizioni concrete di pace, per quanto concerne i migranti e i rifugiati, significa impegnarsi seriamente a salvaguardare anzitutto il diritto a non emigrare, a vivere cioè in pace e dignità nella propria Patria”».

LA FORMAZIONE “OBSOLETA”

Mario Molteni ha fatto precedere il racconto della sua esperienza di formazione imprenditoriale da alcuni dati statistici riguardanti la formazione e l’impresa in Africa: «Il 50 per cento dei laureati africani resta disoccupato, perché la loro formazione è obsoleta. Allora sono assorbiti nel settore dell’economia informale, che da solo occupa il 70 per cento della manodopera africana. Secondo alcune statistiche l’Africa è il continente con la più alta percentuale di imprenditori: ben il 22 per cento della forza lavoro. Ma nel 60-70 per cento dei casi si tratta di imprese che non vanno oltre l’economia di sussistenza. Le città africane danno questa impressione di grande vitalità, che però fa i conti con la mancanza di strumenti adatti a costruire il presente e il futuro. L’Africa è il continente che ospita la maggior parte delle terre fertili non coltivate, che produce molto meno delle sue potenzialità: le vacche africane, per dirne una, producono solo il 15 per cento del latte e della carne delle nostre. Ci sono grandi margini di miglioramento, e c’è una grande propensione a ricorrere alle tecnologie più moderne: in Africa ci sono 900 milioni di cellulari per una popolazione di 1 miliardo di persone, ci sono interi villaggi dotati di pannelli solari e altre tecnologie energetiche di avanguardia».

CAPOVOLGERE IL PROGRAMMA

Su questa situazione la Business School della Cattolica di Milano è intervenuta con programmi di formazione classici, offrendo borse di studio ad africani che sono venuti a studiare in Italia. Ma presto si è presentato il consueto problema: gli africani, anche i più selezionati e motivati, tendevano a restare in Europa anziché tornare in patria, il progetto stava contribuendo a impoverire l’Africa attraverso la fuga dei cervelli anziché ad arricchirla. «Abbiamo deciso di capovolgere il programma: ci siamo trasferiti in Africa noi, offrendo e concordando programmi in loco con le università africane. Siamo partiti dal Kenya nel 2010 e nel giro di cinque anni ci siamo ritrovati in cinque paesi diversi. Abbiamo cercato di trasferire alcune peculiarità italiane che vedevamo adatte all’Africa, ma siamo sempre partiti dalle esigenze locali, che spesso non erano considerate dai grandi programmi di origine britannica e statunitense. Nel 2015 ho presentato il nostro programma e il nostro metodo a Letizia Moratti, e grazie al suo interessamento siamo arrivati alla creazione della Fondazione E4Impact, dove convergono l’Università Cattolica e grandi imprese italiane come Bracco, Salini, Eni, Mapei, ecc. Oggi operiamo in 8 paesi africani e possiamo vantare di aver fatto fare un salto di qualità a 700 imprenditori africani. In Europa c’è una percezione esageratamente allarmista dell’Africa, che allontana i potenziali investitori italiani e che fa credere che non sia possibile fare crescere veri imprenditori locali. La nostra è una piccola esperienza, ma che si segnala per il suo metodo: operare fianco a fianco con gli africani, promuovendo uno sviluppo sano e integrale».

@RodolfoCasadei

Foto Ansa

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