Lettere al direttore
L’aborto non può essere considerato un diritto naturale
Ora che il polverone mediatico si è posato è possibile mettere meglio a fuoco alcuni aspetti della tanto contestata decisione della Corte suprema Usa sull’aborto. A partire dal fatto che c’era da schiantarsi dal ridere se non ci fosse stato da piangere a dirotto quando l’altro giorno il presidente Usa Joe Biden ha definito la sentenza che ha cancellato la Roe vs Wade, «frutto di un’ideologia estrema». Che se c’è un principio che più ferocemente ideologico non si può questo è proprio il sofisma alla base di ogni legislazione abortista, ossia il non riconoscimento dello status di essere umano del feto (“grumo di materia inerte”, come lo definì qualcuno). I giudici della Corte suprema hanno decretato che nella Costituzione non c’è alcun riferimento all’aborto e che «un tale diritto non è implicitamente protetto dalla Costituzione». Meno male. Perché nessuna Costituzione al mondo dovrebbe sancire il diritto ad uccidere posto che l’aborto, se vogliamo chiamare le cose per nome, vuol dire esattamente questo: sopprimere una vita umana.
Oggi più che mai andrebbero rilette le parole pronunciate da Madre Teresa di Calcutta il 10 dicembre 1979 in occasione del conferimento del Nobel per la Pace: «Il più grande distruttore della pace oggi è l’aborto, perché è una guerra diretta – un’uccisione diretta – un omicidio commesso dalla madre stessa… se una madre può uccidere il proprio bambino, cosa mi impedisce di uccidere te e a te di uccidere me? Nulla». È la procreazione che va rimessa al centro dell’agenda politica. Tanto più a fronte della piaga sociale della denatalità che affligge il nostro Paese. E bene ha fatto Cristina Comencini a sollevare la questione in un recente (e coraggioso, anche) intervento su Repubblica: «Fare l’amore fortunatamente può non produrre più inevitabilmente un bambino ma può ancora produrlo?… Le giovani donne di oggi dovrebbero imporre a gran voce, come un tempo la generazione precedente ha imposto la libertà sessuale, la loro libertà di essere madri, di desiderare un corpo anche per fare nascere un’altra, un altro».
Sta tutta qui la sfida dei prossimi anni (per non dire decenni); sfida rispetto alla quale andrebbe oltretutto recuperata la figura del padre, troppo spesso relegata ai margini del discorso pubblico quando si parla di generazione, anche per evitare le secche di certo femminismo distopico che vagheggia una società di sole madri. Ma soprattutto sfida che richiede un passo indietro come singoli e uno in avanti come comunità. Oltreché una classe politica all’altezza della situazione avendo a mente il celebre aforisma di De Gasperi: un politico pensa alle prossime elezioni, uno statista alle prossime generazioni (alla lettera, aggiungiamo noi).
Luca Del Pozzo
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Caro direttore, sono rimasto molto sconcertato dalle reazioni dei c.d. liberal (liberal di uccidere?) americani e nostrani di fronte alla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, che ha dichiarato che l’aborto non è un diritto implicitamente protetto dalla Costituzione. Tale sentenza è stata giustamente definita “storica”, almeno per quanto riguarda gli Usa, anche se, in una situazione “normale”, essa dovrebbe essere considerata una sentenza quasi “banale”, visto che semplicemente ribadisce che non esiste il “diritto” ad uccidere, a porre fine ad una vita, sia essa debole o forte. E qui si potrebbe aprire un lungo e articolato discorso che Tempi ha già iniziato a fare.
Con queste brevi note, invece, vorrei soffermarmi sulle incredibili reazioni cui abbiamo assistito dopo il deposito, motivato, della sentenza. La capa dei democratici americani, Nancy Pelosi, ha detto che si è trattato di una “sentenza crudele”! Crudele perché cerca di evitare la morte prematura di tanti bambini e bambine? È diventato “crudeltà” il tentativo di tutelare in qualche modo la vita? La Sig.ra Michelle Bachelet, che dovrebbe tutelare i diritti umani per conto dell’Onu, ha detto che la sentenza ci fa tornare indietro di almeno 50 anni. Mi pare, invece, che facciamo un balzo in avanti di alcuni millenni da tutti i punti di vista: sia dal quello dei “diritti” (si dà tutela al più debole dei deboli) sia dal punto di vista “ecologico” così caro ai liberal (si combatte una disumana violenza al corso della natura). L’ex presidente statunitense Barack Obama, naturalmente, ha seguito questo filone, prone a quello che è considerato, da lui stesso, un pensiero politicamente corretto. Più sconcertante di tutti è da considerare l’atteggiamento dell’attuale presidente Biden (sedicente cattolico, guerrafondaio e abortista) che si permette di indicare alle donne come abortire comunque, andando negli Stati in cui la cosa è possibile oppure provvedendo a domicilio. Un presidente che più ideologico non sarebbe possibile ed anche contradditorio, visto che nello stesso giorno in cui incita le donne ad abortire propone una legge per limitare l’uso delle armi negli Usa, dimenticando che la vita deve essere difesa sempre e comunque. In Italia, il nuovo partito radicale, altrimenti detto Pd, si è subito allineato al pensiero mortifero. Mentre negli Usa sono venuti allo scoperto, in modo indecente, tutti coloro che sono portatori di grandi interessi economici nel favorire l’aborto: altro che la tutela dei diritti delle donne!
In tutto questo, c’è un attacco istituzionale alla Corte Suprema, che va bene solo quando ubbidisce, come in Italia avviene per la Corte Costituzionale, agli ordini di un pensiero che viene, erroneamente, ritenuto maggioritario. Ma, soprattutto, c’è la conferma che il pensiero, nato da una orgogliosa e diabolica affermazione della totale autonomia e indipendenza degli esseri umani (come se non fossero “creati” dal nulla), pretende di essere un pensiero unico e forzosamente imposto a tutti. Fortunatamente, vi sono ancora isole in cui questo non avviene e ciò fa innervosire i c.d. liberal, che sono sempre più gli attuali dittatori.
Peppino Zola
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Caro direttore, la notizia della decisione presa dalla Corte Suprema americana di negare all’aborto lo status di diritto inalienabile costituzionalmente garantito, ha messo in subbuglio il mondo intero, non soltanto gli Stati Uniti. Si è andata moltiplicando una fiumana di giudizi, fondati sulla grave ferita alla libertà delle donne. È stato detto e scritto di tutto: la Corte Suprema ha attaccato le libertà fondamentali di milioni di americani (Obama); oggi è un giorno triste per la Corte Suprema e per il Paese, sottolineando che il massimo organo giudiziario americano ha portato via un diritto costituzionale (Joe Biden); un tragico errore frutto di una ideologia estrema (Roe Wade); ho il cuore spezzato e gli americani che hanno perso il diritto di assumere decisioni informate (Michelle Obama); questa sentenza è un insulto per le donne, decisione crudele e scandalosa (Nancy Pelosi); e quant’altri… Compresi alcuni giudizi nel nostro Paese, evidenziando un ritorno indietro che genera sconcerto, che alimenterà sofferenze e farà divampare conflitti (Letta); credo nel valore della vita, dall’inizio alla fine, ma a proposito di gravidanza l’ultima parola spetta sempre alla donna (Salvini); drastico passo indietro che trascina il presente nei tempi bui (Orlando); sentenza invereconda (Patuanelli); un pericoloso e preoccupante passo indietro di 50 anni (Boldrini); per fortuna che in Italia c’è la 194, legge solida che nessuna forza politica metterà in discussione (Carfagna).
Come si vede tutto si incentra sul tema dei “diritti”, in ordine ai quali, quando si entra nel merito, si evince anche che molti sono i diritti altri che pure vanno rispettati; diritti tutt’altro che residuali, quale il diritto alla vita dal concepimento sino alla naturale conclusione. Non si può negare che abortire significa interrompere una vita nascente, e ciò particolarmente dopo varie settimane di gestazione. E si tralascia, come norma inutile, in tema complementare della responsabilità.
In questo senso – su cui non mi dilungo – riprendo quanto scritto su La Stampa del 26 giugno – da Lucetta Scaraffa, la quale si pone una domanda che «anche noi femministe dobbiamo avere il coraggio di farci: l’aborto può essere davvero considerato un diritto naturale, indipendentemente da ogni atto legislativo che lo sanzioni, perché è proprio ciò e solo ciò che la Corte americana ha negato? Può davvero essere considerato un diritto naturale la facoltà di sopprimere la possibilità di vita di un altro essere umano? E quindi, di conseguenza, abbiamo fatto bene a fondare battaglie femministe su questo straordinario diritto? Viceversa combattere per la semplice depenalizzazione dell’aborto è una battaglia giusta e sacrosante, fondativa del movimento femminista, così come la battaglia che ha portato a riconoscere lo stupro come reato contro la persona e non contro la morale. È da entrambe queste battaglie che, infatti, che deriva il rispetto per il corpo femminile e per il diritto della donna di disporne liberamente. Diritto imprescindibile per fondare la libertà delle donne e il rispetto nei loro confronti. Invece l’aborto, formulato come un vero e proprio diritto naturale, di fatto coinvolge un’altra persona, cioè il padre del nascituro, e in un certo senso anche il possibile nascituro. E quindi, come si capisce, risulta alquanto problematico considerarlo un vero e proprio diritto naturale, trattandosi tra l’altro di una decisione che coinvolge altri interessati ma privi in alcun modo della possibilità di interferire. Mi chiedo quindi se non sarebbe allora tanto meglio impostare fin dall’inizio la battaglia sul tema dell’aborto chiedendo la sua pura e semplice depenalizzazione. Questo mi sembra il vero problema che pone la sentenza della Corte Suprema americana. La sua decisione, sicuramente oltre modo deprecabile per i suoi effetti, mette però il dito su una contraddizione effettivamente esistente alla base dell’ideologia femminista. Affermare il diritto l’aborto come un diritto naturale inalienabile delle donne infatti significa inevitabilmente negare qualunque diritto chiunque altro a qualsiasi titolo sia interessato all’eventuale nascita di un essere umano. Limitarsi alla depenalizzazione dell’aborto significa invece consegnare la terribile decisione alla coscienza di chi la compie, e accettare quindi che questa scelta dolorosa venga pagata, nel corpo e nella psiche, dalla donna che la compie».
Non è giusto che il problema venga accantonato senza una adeguata considerazione complessiva. «La protezione della vita mana – ricorda mons. Vincenzo Paglia – non è una questione che può rimanere confinata nell’esercizio dei diritti individuali, poiché ha un ampio significato sociale. Dopo cinquant’anni è importante riaprire un dibattito non ideologico sul posto che ha la vita in una società civile, per chiedersi che tipo di convivenza e di società vogliamo. E per farlo occorre allargare lo sguardo impegnandosi per assicurare una adeguata educazione sessuale, garantire un’assistenza sanitaria accessibile a tutti e predisporre misure legislative a tutela della famiglia e della maternità, superando le diseguaglianze esistenti. Nonché predisporre una solida assistenza alle madri, alle coppie e al nascituro che coinvolga tutta la comunità, favorendo la possibilità per le madri in difficoltà di portare avanti la gravidanza e di affidare il bambino a chi può garantirne la crescita».
Forse, oltre a ricordare il dovere di rispettare di ognuno il proprio diritto alla vita, nonché il proprio inderogabile dovere alla responsabilità personale, opportuno ricordare anche i tanti diritti che in nome di un relativismo spesso inumano, sono trascurati da mentalità e mode improprie e da un anarchismo liquido e improduttivo.
Giancarlo Tettamanti
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