A risollevare il Cile dopo gli incendi non sarà la “resilienza”, ma un altro “fuoco”
Nessuno è rimasto indifferente agli incendi che si sono verificati nella regione di Valparaíso in Cile. Sono migliaia le famiglie che sono rimaste senza casa (si stima che siano più di 15 mila le abitazioni completamente distrutte) e senza lavoro. Centinaia, inoltre, le persone che hanno perso la vita, forse questo è il bilancio più triste.
Le reti televisive si sforzano di trovare l’immagine più drammatica, alcune per incolpare il governo o qualcun altro, altre liberare dal peso della colpa con un eccesso di sentimentalismo. Quello che è certo sono i fatti e su questi bisognerebbe fare i conti.
È sempre commovente vedere la forza delle persone che subito iniziano a costruire o, meglio, a ricostruire le proprie vite. La parola che ho sentito più spesso in questi giorni è “resilienza”, questa sorta di adattamento psicologico all’avversità, soprattutto quando questa causa un profondo dolore o sconcerto.
La natura di tutti gli eventi, i fatti, più o meno impressionanti, ha questa capacità di risvegliare l’umanità, di mobilitare la solidarietà e di riconoscere che ciò che è accaduto o sta accadendo nasconde un bene, perché ciò che si vive e si sperimenta è proprio la genuina gratuità dopo una sofferenza o un dolore che nessuno desidera né per sé né per gli altri.
È questo coinvolgimento con l’altro e con il suo dolore che ci fa toccare la fibra dell’umano, da cui scaturisce una libertà nuova, sconosciuta, non reattiva, che fa percepire a noi tutti un modo più giusto di vivere e di affrontare la quotidianità.
La natura dell’umano non è solo questa capacità di adattarsi alle circostanze. È più profonda di una certa capacità puramente psicologica, che tra l’altro hanno anche gli animali; qui stiamo parlando proprio di ciò che ci distingue, di ciò che ci rende veramente persone e non semplicemente sperimentatori del nostro istinto di sopravvivenza.
Il potere che hanno i fatti è quello di risvegliare ciò che è maggiormente costitutivo dell’umanità, il riconoscere che la nostra vita è fatta per donarla, non solo per guardare e guardarci sempre con gli occhi del narcisismo della nostra stessa sofferenza, che ci fa credere di avere il “monopolio” del dolore.
La carità, il legame vincolante con l’“altro”, è il vero fuoco dell’esistenza e la scintilla della nuova umanità. Ecco perché ancora ci commuove la vita dei santi, ossia di persone che non erano buone né perfette né coerenti, ma che vivevano così, con questo ardore per tutti gli eventi. «Un fuoco che accende altri fuochi», diceva un santo cileno, il caro padre Hurtado. Il fuoco che ha acceso il fuoco della carità ci dimostra che gli eventi vissuti con profonda umanità ci portano a Dio.
Dobbiamo avere pazienza, perché il culmine di questa umanità non è dato dalle nostre buone azioni né da aspetti sociologici, per quanto positivi possano essere. Nemmeno la nostra solidarietà momentanea ci viene da noi stessi, ma da una persona, Cristo, che nella sua radicalità invita sempre a guardare Lui. Non ci basta essere “resilienti” (questo fa rivolgere lo sguardo a noi stessi e alle nostre capacità), abbiamo sperimentato che abbiamo bisogno di essere salvati, e questo, secondo me, è il culmine e il compimento della nostra esistenza.
La posizione umana più realistica da cui può nascere – ancora – un mondo nuovo, anche in una società tanto frammentata come quella cilena, scaturirà solo dal riconoscimento di questo Fatto (quello cristiano), che sta alla radice di tutta l’esperienza umana. Per ora ringraziamo perché abbiamo il fondamento che, con il tempo, ci permetterà di trovare di nuovo Cristo.
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