A Brera espongo quadri per cambiarvi la vita

Di Marina Mojana
21 Giugno 2017
Il direttore della Pinacoteca vuole portare a termine la “Grande Brera” e ha un piano per farlo. Che non si ferma al museo. E punta al cuore dei suoi visitatori

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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Direttore generale della Pinacoteca di Brera e della Biblioteca Braidense di Milano dal 2015, il canadese James Bradburne gestisce un patrimonio di circa 2 mila opere d’arte (650 esposte, 1.300 nei magazzini) con 177 dipendenti tra custodi, amministrativi, bibliotecari, storici dell’arte, architetti, archeologi, fotografi e restauratori e un budget di 13 milioni di euro all’anno. «La voce di spesa che assorbe più denaro è quella del personale (80-85 per cento), ma tutti i dipendenti statali sono pagati direttamente da Roma», dice a Tempi. «Se non credessi che l’incontro con un quadro di Caravaggio o con un libro antico possono cambiarci la vita, non verrei qui a lavorare tutte le mattine».

James Bradburne mi riceve nel suo ufficio, in via Fiori Oscuri, circondato da una squadra efficiente di segretarie, giovani blogger e addette stampa. Mi parla della sua mission: «Riportare Brera nel cuore di Milano e i visitatori nel cuore del museo», e soprattutto di Franco Russoli, che diresse la Pinacoteca dal 1957 e fu sovrintendente di Brera dal 1973 al 1977: «Con lui condivido la stessa visione di museo: un luogo di impegno e non di evasione». Soprattutto Bradburne sembra essere l’unico ad avere compreso la portata rivoluzionaria del progetto della “Grande Brera” di Russoli – cioè un museo aperto, che si confronta con la realtà coinvolgendo il pubblico di fasce sociali e interessi culturali diversi – e pare determinato a portarlo a compimento. Non a caso giovedì scorso ha presentato a Casa Testori a Novate Milanese il volume Franco Russoli. Senza utopia non si fa la realtà. Scritti sul Museo (1952-1975), edito da Skira, curato da Erica Bernardi e ripubblicato grazie alla sua tenacia (l’unica edizione Feltrinelli, dopo 40 anni, era ormai introvabile). «Per Russoli – racconta Bradburne – la Grande Brera era un percorso che incominciava con la chiesa qui a fianco, passava all’Orto, all’Osservatorio e finiva al Teatro alla Scala. Brera non era il solo Palazzo, ma l’intero quartiere. La concepisco così anch’io: la Grande Brera è l’insieme di vari luoghi limitrofi nel cuore della Grande Milano».

Esperienze che lasciano il segno
Al direttore il numero dei visitatori (443.940 da marzo 2016 ad aprile 2017) interessa meno di quello delle persone trasformate dall’incontro con l’arte; perciò ogni giorno lavora perché tutti ne possano fare esperienza. Nel suo museo, con l’aiuto degli Amici di Brera, si rinnova la didattica e si riallestiscono le 38 sale della Pinacoteca. Innamorato della bellezza, il direttore non perde occasione per trasmettere questo suo modo di vivere nell’arte a tutto tondo; il prossimo 21 giugno, ad esempio, organizzerà il “Ballo di Brera” nel cortile della Pinacoteca e in collaborazione con “Gioia! Smart Awards”, perché «il Palazzo rianimato deve contagiare tutto il quartiere». Ha brevettato con il vivaio Rose Barni la “Rosa di Brera”, coltivata nell’Orto botanico per reperire fondi e in forma di spilla preziosa (Bodino) per premiare i sostenitori importanti; anche le nuove divise dei custodi, firmate Trussardi, rientrano nel programma di seduzione del nuovo direttore, che non teme la sentenza del Tar del Lazio. «Il nostro lavoro va avanti – commenta – e a meno che non ci sia un terremoto politico apriremo Palazzo Citterio nel 2018, come promesso».

In due anni oltre metà delle sale sono state rinnovate nei colori, nelle luci e nelle didascalie; la Pinacoteca si è aperta alla musica e alle famiglie, svelando laboratori di restauro e alcuni depositi. La sua “arma” per combattere il drago della burocrazia statale è una sola: «Resistere, resistere, resistere» e ci riesce grazie al supporto di tante personalità della cultura cittadina: Aldo Bassetti (presidente degli Amici di Brera), Annamaria Zanni (direttrice del Museo Poldi Pezzoli), Philippe Daverio, lo scrittore Tim Parks, il compositore Michael Nyman e, soprattutto, della sua squadra.

Uno strumento di identità
Come si definisce James Bradburne? Un artista, uno studioso o un manager della cultura? «Direi piuttosto un giardiniere, un regista e un mediatore». Cioè? «Giardiniere perché ho il compito di fare crescere la squadra. Regista perché dipende da me valorizzare le competenze di ognuno. Mediatore quando comunico al mondo il museo, quando reintroduco i quadri e i libri del passato in un discorso contemporaneo di civiltà».

Nato nel 1955, cittadino britannico, Bradburne si appassiona fin da bambino ai paesaggi del canadese Lawren Harris (1885-1970), studia architettura a Londra, poi museologia ad Amsterdam e Berkeley. Nel 1986, nel progettare i padiglioni dell’Esposizione internazionale di Vancouver, impara a “leggere” il primo bilancio economico. Colleziona libri antichi, scrive libri per ragazzi e ha una predilezione speciale per un grande telero di Gentile e Giovanni Bellini conservato a Brera; è La predica di San Marco in una piazza di Alessandria d’Egitto (1504-1507), dove tra ottomani e donne velate si vede sullo sfondo una giraffa. «È un quadro straordinario – spiega – davanti al quale si trovano parole per tutti, dai bambini, agli esperti di religioni».

Il suo museo ideale, infatti, è il luogo dove scoprire i valori di tolleranza e libertà che hanno fatto grande l’Europa. «Quando la nostra cultura è sotto attacco, il museo diventa uno strumento di identità, fa parte della nostra storia; senza Raffaello saremmo tutti più poveri». Poi aggiunge: «Siamo tutti emigranti, se non nello spazio certamente nel tempo, diretti verso un futuro incerto, e che cosa mettiamo in valigia? Io metto la scoperta della mia umanità rivelata dall’arte. Lo scopo di un museo è dirci chi siamo».

Foto Ansa

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