Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
«Ho una certa dimestichezza con molte spiegazioni delle cose», dice Mr Sammler nel formidabile romanzo di Saul Bellow al dottor Govinda Lal, «…a dirLe la verità, sono stanco della maggioranza di queste spiegazioni». Ecco, anch’io sono un po’ stanco, a dirvi la verità. Ma siccome Alessandro me lo chiede, procedo a una ennesima spiegazione sulla figura pubblica e simbolica di Massimo D’Alema, lo scissionista. Ne dubito, ma forse a qualcosa può servire.
Infatti viviamo in un’epoca di impostura. Ma D’Alema non ha talento istrionico, e di questo è fatta la grande impostura del tempo di The Donald. The Massimo ha talento sarcastico, che è altra cosa. Per il resto, per la prosa del suo vanitoso perseverare in politica, ora che avrebbe l’età per scrivere o se del caso per leggere, in poche parole si può dire tutto. D’Alema ha un solo vero pallino, quando litiga con Walter, quando litiga con Renzi, anche quando fa finta di litigare con Cofferati: ama essere considerato, senza però che lo si esponga come un dato di fatto (sennò che impostore sarebbe?), l’ultimo depositario della tradizione politica comunista.
Credo la cosa gli arrivi dall’essere stato più modestamente per molti anni un figiciotto, un funzionario dell’organizzazione giovanile del Pci, ruolo allora unanimemente considerato minore negli apparati pesanti del partito. Insomma era uno in carriera che poi predisporrà, di comitato regionale in comitato centrale, di scatto in scatto, il monumento al Sé politico, sempre evitando di specificare in nome di quale politica e di quali criteri, sempre giocando e manovrando (sennò che impostore sarebbe?).
Ha intelligenza e carattere ma è annebbiato dalle funzioni dell’Ego, non può pensare e agire in proprio, deve prima pensare a sé stesso e agire come un sé stesso di volta in volta corrispondente a un ruolo (sennò che impostore sarebbe?). Infatti D’Alema cantava l’unica brutta canzone dei Beatles, in un palco con Tony Blair e Bill Clinton, «all you need is love», quando da presidente del consiglio effimero condusse vittorioso la guerra non guerra del Kosovo in nome dell’internazionale riformista con le stellette della Nato.
Il ragazzo di stato aveva tutte le basi per essere uomo di stato di una sinistra riformista, qualunque cosa questo voglia dire, e ci credeva. D’Alema sapeva benissimo che Walter voleva fare una cosa seria con metodi evanescenti, la vocazione maggioritaria di un partito della sinistra moderno e di governo, ma la faccenda turbava non solo il suo status e il suo potere, questioni che certo gli sono care, soprattutto turbava la sua carica simbolica, la sua proiezione tra ordine del sacro e consapevolezza mutilata del subconscio, materiali pericolosi per un leader in un mondo teoricamente laico e disincantato.
Così, D’Alema sapeva benissimo che Renzi era l’ultimo tentativo possibile di riaffermare quella vocazione maggioritaria, e che le sue idee riformiste sul mercato del lavoro, la modernizzazione dell’economia, la ripresa della produttività economica e la riforma delle istituzioni erano quelle giuste, e che per realizzarle doveva necessariamente liberarsi di intermediari paciocconi e inutili che occupavano la presidenza del consiglio, e fare patti con Berlusconi, uno sport in cui The Massimo si era allenato per anni, giustamente e talvolta con il nostro aiuto, ma senza successo.
Sapeva che l’accozzaglia vetero costituzionale, una specie di accademia della frustrazione popolare inscenata per battere l’uomo solo al comando, era una coalizione inesistente, la cui efficacia dipendeva tutta dalla sua vena distruttiva e nichilista, dalla sua capacità di esprimere la intollerante pretesa degli italiani di essere protetti ma non governati. Eppure, da vero e callido impostore, ha sempre fatto finta: fatto finta di essere a Bruxelles, fatto finta di rappresentare la tutela del Vero Cambiamento Collettivo, fatto finta di essere un elder statesman nel partito della Fondazione, e ora passa da scissionista del dieci per cento, se sarà dieci, alla fondazione del Partito. Una cosa seriosa e molto poco seria. Un’impostura.
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