
Non sia vana la sofferenza dei profughi cristiani, perseguitati in patria e qui

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Negli ultimi cinque anni la percentuale di cristiani tra i profughi che giungono sulle coste italiane è cresciuta di quasi il 30 per cento: non solo da Siria e Iraq, ma pure da Nigeria e Pakistan; gli eritrei sono oggi il secondo gruppo per consistenza, e al loro interno i cristiani costituiscono la maggioranza. Questa tendenza all’aumento trova riscontro in chi opera la prima accoglienza: i genitori di tanti bambini appartenenti a famiglie di rifugiati chiedono il battesimo per i loro figli, se non è stato ancora loro impartito. Una volta giunti in Italia, è frequente che cerchino un contatto con la Chiesa locale; la maggior parte di loro partecipa alle attività parrocchiali e i bambini frequentano il catechismo.
Certo, le esigenze materiali, dalle cure sanitarie agli alloggi, vengono al primo posto: per questo papa Francesco ha sollecitato parrocchie e case religiose a rendersi disponibili. Ma lui stesso ha esortato a non dimenticare altre esigenze. Nelle tragedie di chi fugge dalle persecuzioni e dalle guerre ci sono famiglie che sono dimezzate a seguito delle morti per atrocità nei luoghi d’origine o durante la fuga; che si dividono, pur se desiderano stare insieme, alcuni rimanendo nella zona di provenienza e altri tentando il viaggio in Europa; che si separano talora per la materiale impossibilità di continuare a convivere, poiché violenza e persecuzione abitano al loro interno, per esempio con l’imposizione di un matrimonio non voluto o di pratiche religiose ostili alla più elementare dignità umana; che hanno difficoltà, una volta raggiunte terre più tranquille, a mantenere quella pratica religiosa e quello stile di vita che seguivano prima delle persecuzioni o delle guerre.
Cibo e alloggio non esauriscono le necessità. Assicurato quello che serve per la sopravvivenza, il primo terreno di aiuto concreto è ricomporre – per quel che si può – il nucleo familiare, facendo sì che i componenti continuino a vivere nel medesimo luogo e magari siano raggiunti da chi è rimasto. Le realtà ecclesiali, se ancora sopravvivono nei luoghi nei quali si combatte e dai quali si fugge – quasi sempre vi restano fino all’ultimo –, possono contribuire a tenere vivi questi legami, e a ricollegarli, mentre le realtà ecclesiali operanti in Occidente possono aiutare – molte sono già impegnate in questa direzione – a far ritrovare gruppi familiari dispersi. Vi è poi l’esigenza di sostenere moralmente e spiritualmente chi ha vissuto e vive una esperienza così carica di sofferenza. Ai cristiani di qui compete farsi carico anche di questo, serve tanto più quando le famiglie dei migranti si imbattono in leggi e costumi antitetici ai loro: la testimonianza a la cura dei cristiani che accolgono in Europa possono vincere le diffidenze di chi lascia una persecuzione cruenta e materiale e rischia di imbattersi in una persecuzione incruenta e ideologica. Vi è una differenza fra le due, ma riguarda la consistenza e il modo, non l’esistenza dell’ostilità.
Una pastorale diffusa e omogenea verso i profughi cristiani, che crescono di numero, è indilazionabile e può solo tornare a vantaggio di chi accoglie. Include la possibilità che chi di loro ne ha la predisposizione e la disponibilità racconti alle nostre comunità ecclesiali l’esperienza vissuta. Se la nostra fede è sempre meno incisiva nella vita quotidiana, la testimonianza di chi per quella fede ha perso familiari e beni, lavoro e patria è in grado di conseguire più risultati immediati: edifica e sprona chi vive qui; illumina su quanto sia vicino il rischio di perdere la nostra libertà religiosa, e su quanto non si debba tardare nel scongiurarlo; è di conforto per queste persone, poiché permette di dare un senso al loro sacrificio. In qualche modo, capovolge la logica: non sono loro a dover ringraziare noi che li accogliamo, ma noi a essere grati a chi oggi arriva a lasciare tutto pur di non rinnegare la fede. Proietta il nostro impegno di italiani e di europei per creare le condizioni di un loro ritorno in una patria che non avevano nessuna intenzione di lasciare, e che è cristiana da duemila anni.
Foto Ansa
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I Russi, “i nuovi Liberatori” (di chi? Assad lo lasciano dove l’hanno trovato: i “vecchi” liberatori li abbattevano, gli Assad, semmai, senza risparmare gli aspiranti sostituti) hanno dichiarato, per bocca di Putin, che si uniranno ai bombardament aerei contro l’Isis, ma, niente “boots on the ground.”
Quelli per cui la N.AT.O. è il diavolo qualunque cosa faccia o non faccia, vedono che al diavolo (americano) ci vanno (a volo) i Russi, ma i profughi dai Russi non ci vanno e dal dittatore-benefattore amico dei Russi e degli iraniani, neppure.
Chissà perché.
E chissà perché, i profughi dobbiamo tenerceli tutti tutti tutti noi.
I profughi cristiani che premono all’Occidente, per i progressisti europei ed americani sono una autentica maledizione.
Credevano loro che i Cristiani delle Chiese mediorientali potessero essere tutti facilmente sterminati, bastava solo aspettare e trincerarsi dietro il “no boots on the ground” e fare un po’ di fuochi d’artificio con gli aeroplanini telecomandati per mostrare al mondo che qualcosa fanno e per convincere l’opinione pubblica che, in fin dei conti ma proprio in fine, non stanno dalla parte dell’isis.
Quello che mi fa schifo è che quella stessa gente ha accusato Pio XII di non essersi opposto alla Shoah, e quegli stessi accusatori si girano dall’altra parte per far finta di non sentire e vedere il genocidio perpetrato dall’isis.
Finchè si tratta di giocare a fare bum-bum sui sassi del deserto con gli aeroplanini telecomandati a debita distanza………tutti eroi di cartapesta.
Per fortuna ci sono i Russi, i nuovi Liberatori…..e al diavolo la Nato !!!!!!!!
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