
4mila euro per farlo sparire
«È di trentuno settimane? No, non ho alcun problema». Diceva così il dottor Carlos Morín, titolare di due cliniche private (una a Barcellona, l’altra a Madrid) specializzate in interruzioni di gravidanza. In tutta la Spagna sono una cinquantina le strutture come le sue e danno lavoro a centinaia tra ginecologi, ostetrici, anestesisti e infermieri: sono loro che, materialmente, praticano la quasi totalità degli oltre 101 mila aborti che si registrano annualmente nel paese, una cifra più che raddoppiata negli ultimi dieci anni, se è vero che nel 1997 se ne contavano sì e no 50 mila. Le cliniche del dottor Morín erano tra le più affollate, fino a qualche settimana fa, e vantavano circa 5 mila “clienti” nell’arco dei dodici mesi, che a 4 mila euro ad aborto rendevano circa 20 milioni di euro l’anno. Erano in tanti a rivolgersi al ginecologo catalano, anche dall’estero: un viavai che ha insospettito prima gli attivisti del gruppo pro life cattolico E-Cristians, poi i giornalisti di un’emittente tv danese, incuriositi dal crescente flusso di loro connazionali verso le due cliniche spagnole. È così che due di loro hanno deciso di provare a vedere chi e perché si rivolgeva al dottor Morín, non mancando in Danimarca i centri abilitati a praticare interruzioni di gravidanza.
Così una giornalista realmente incinta si è finta determinata ad abortire: insieme a un collega ha avviato le trattative per un intervento fuori tempo massimo e non legato ad alcun rischio per la salute. Dicendo di essere quasi al termine del settimo mese di gestazione, la donna ha telefonato da Copenhagen al dottor Morín chiedendogli se potesse fare qualcosa per lei. «Nessun problema», è stata la risposta del medico, che ha fissato un appuntamento nella clinica di Madrid per la settimana successiva. La trentunesima di gravidanza. I due giornalisti, che avevano registrato la telefonata, sono andati all’incontro e l’hanno filmato di nascosto. Il video è stato poi trasmesso in Danimarca e, qualche settimana più tardi, anche in Spagna: «È una cosa sicura?», chiede la donna. «Per lei? Glielo prometto», risponde il ginecologo spagnolo, che poi spiega il suo modus operandi: «È come un parto, però indotto. Diciamo che non è naturale, ma artificiale». «E siamo sicuri che il bambino nascerà morto?», domanda la giornalista. «Sicuri al 300 per cento», replica il medico, che, spiega, somministrerà al nascituro «digoxina, che è quel che si prende di solito quando si ha un attacco di cuore, però in sovradosaggio». Il bambino, insomma, viene avvelenato e fatto nascere già morto. Il medico spiega che l’intervento costerà 4 mila euro, che ha clienti provenienti da tutto il mondo («anche dall’Australia») e che c’è «un piccolo test da fare per dimostrare che c’è un problema psicologico della madre. Ansia, depressione, cose del genere. Una formalità burocratica». Peccato che per la legge spagnola quel test non sia un pro forma burocratico e la gestante (in mancanza di seri rischi per la propria salute) non possa chiedere l’aborto oltre le prime 22 settimane di gestazione in caso di gravi malformazioni nel nascituro, o entro le prime 12 se è stata vittima di violenza sessuale.
Lo scoop danese e la denuncia di E-Cristians hanno portato la procura di Barcellona ad aprire un’inchiesta che ha condotto all’arresto di Morín e di sette suoi collaboratori, tra i quali la moglie. Rischiano tre anni di carcere, la radiazione dell’albo e la chiusura delle cliniche. «Io non sono un filosofo e non vado chiedendomi se un feto che uccido potrebbe sopravvivere fuori dall’utero», aveva obiettato il ginecologo ai due danesi una volta che questi, smessi i panni dei “clienti”, gli avevano rinfacciato la sua condotta immorale. «Lei ha la sua morale, io la mia».
Ma il caso Morín non si è concluso con gli arresti. L’ondata di indignazione ha infatti messo in moto la macchina dei controlli e il governo Zapatero, che certo non simpatizza con il fronte antiabortista, ha disposto perquisizioni e monitoraggi costanti di tutte le strutture private che – come quelle di Morín, dove i feti venivano distrutti e i resti occultati dopo il parto indotto – potrebbero essere delle potenziali “cliniche degli orrori”. In Catalogna l’esecutivo locale ha ordinato ispezioni in tutti i nosocomi abilitati.
Uno sciopero senza precedenti
Dal canto loro, i gruppi pro life spagnoli hanno iniziato a mobilitarsi per tutto il mese di dicembre e ancora nella prima metà di gennaio, organizzando picchetti e proteste davanti alle cliniche rimaste aperte. Anche perché le inchieste, dentro e fuori il paese, stanno facendo luce su un vero e proprio turismo della morte che aveva per meta le cliniche di Morín, ma non soltanto quelle. Il mese scorso altri due centri per l’aborto sono stati chiusi per “irregolarità”. Sempre a dicembre una donna è stata arrestata in Olanda: si sarebbe recata all’estero per su-
bire un aborto alla ventiquattresima settimana, ossia oltre il limite fissato dalla legge dei Paesi Bassi. Per l’operazione, dicono gli atti dell’inchiesta, era andata proprio in Spagna. Nel Regno Unito l’agenzia pubblica British Pregnancy Advisory Service aveva già da tempo ammonito sullo “strano” flusso di gestanti alla ventiquattresima settimana (il limite legale fissato dal governo di Londra) verso le cliniche di Barcellona.
Francisca García Gallego, portavoce andalusa dell’associazione delle cliniche accreditate, parla di «criminalizzazione generale» delle strutture abortiste e nega che altri centri seguano la via tracciata dal dottor Morín. Parla di «attacco sistematico» e di «perquisizioni abusive» (ma a condurle sono l’autorità giudiziaria o ispettori amministrativi) e le sue parole sono state il prologo di uno sciopero unico nella storia più che ventennale (la legge è del 1985) dell’aborto in Spagna, quello dei lavoratori delle cliniche convenzionate. Dall’8 gennaio il 98 per cento delle strutture che praticano gli interventi nel paese è rimasto chiuso. I dipendenti lamentano «intimidazioni, offese, vandalismi», i portavoce rivendicano la correttezza delle procedure: «Il 90 per cento delle interruzioni di gravidanza viene praticato entro le prime 12 settimane», ha ribadito la García. Circa duemila donne hanno dovuto cancellare o posticipare l’appuntamento per abortire. E questa, forse, è l’unica buona notizia.
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