In occasione del 42esimo anniversario del fallito attentato a papa Giovanni Paolo II (13 maggio 1981), pubblichiamo per gentile concessione dell’autore stralci dell’introduzione di Maurizio Tortorella al libro di Francesco Bigazzi Attentato a papa Wojtyla. La pista bulgara (Licosia, 198 pagine, 14 euro).
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Dal 13 maggio 1981, quando sparò i suoi due colpi di calibro 9 contro papa Giovanni Paolo II, Mehmet Ali Ağca ha continuato a fare il pazzo, a mentire e a confondere le acque. Nella sua autobiografia, uscita nel 2013 e intitolata Mi avevano promesso il Paradiso, ha scritto che l’attentato gli fu ordinato dall’ayatollah Khomeini: «Tu devi uccidere il Papa nel nome di Allah», gli avrebbe detto il leader iraniano, «perché è il portavoce del diavolo in terra. Poi togliti la vita affinché la tentazione del tradimento non offuschi il tuo gesto, e avrai come ricompensa il paradiso». […]
La sua condanna è una delle poche certezze nel buio fitto che ancora avvolge uno dei grandi misteri del secolo scorso. A sparare al Papa fu sicuramente lui, un fanatico musulmano legato all’organizzazione turca di estrema destra dei Lupi grigi, misteriosamente evaso nel 1979 dal carcere turco dove era stato sbattuto per il suo primo omicidio. Ma ancora oggi la giustizia non ha accertato chi siano stati i suoi mandanti, né quale sia stata la genesi dell’attentato. […]
La tesi del complotto internazionale, quindi, è sempre stata la più credibile. Ne era certo lo stesso Giovanni Paolo II. Nel suo Memoria e identità, pubblicato un mese prima della sua morte, nel febbraio 2005, il pontefice aveva scritto con chiarezza che il suo tentato omicidio era stato «commissionato da una delle ultime convulsioni delle ideologie della prepotenza», cioè nell’Est europeo.
E anche Antonio Marini, il pubblico ministero romano che nel processo di primo grado aveva chiesto il proscioglimento per insufficienza di prove nei confronti dei tre cittadini bulgari (Antonov, Vassiliev e Ajvazov) che Ağca aveva coinvolto nel maggio 1982, è sempre stato sicuro di un complotto che collegasse i servizi segreti della Bulgaria all’attentatore. Del resto, ce n’erano tutti i segnali.
Chi è Mehmet Ali Ağca
Ağca, nato il 9 gennaio 1958 a Hekimhan, nell’Anatolia centrale, nel novembre 1979 era evaso dal carcere turco di massima sicurezza dove era stato da poco rinchiuso per l’omicidio del giornalista Abdi Ipekci, un noto attivista del movimento per i diritti umani, cui aveva sparato nel febbraio precedente. Inseguito a quel punto da una condanna a morte in contumacia, Ağca era fuggito all’estero, dotandosi di coperture e di mezzi economici decisamente improbabili, per un uomo che non fosse protetto da potenti apparati statali: prima si era rifugiato in Iran, poi era rientrato in Turchia, quindi era espatriato in Bulgaria con un falso passaporto indiano. Qui per due mesi aveva vissuto a Sofia, alloggiando nel lussuoso hotel Vitosha. È del tutto improbabile che gli efficientissimi servizi segreti bulgari non avessero individuato in poche ore quel clandestino così vistoso e pericoloso, per di più inseguito da un mandato di cattura internazionale. Ma è soprattutto la dovizia dei mezzi messa a disposizione del fuggitivo che fa ipotizzare collegamenti ad alto livello attivi già allora, e forse non soltanto con le centrali bulgare ma anche con quelle di Mosca e della Germania orientale. Del resto, gli unici paesi che nel 1980-1981 potevano avere interesse a eliminare il Papa polacco, schierato al fianco delle lotte del sindacato cattolico Solidarność nel suo stesso paese e così evidentemente impegnato nella lotta contro il totalitarismo comunista, erano proprio quelli del blocco sovietico.
Particolarmente interessante resta un documento, conservato agli atti della commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Mitrokhin. Si tratta di un’analisi rubricata come “riservata”, sequestrata nell’agosto 1984 dalla polizia a casa di un collaboratore del Sismi, l’ex religioso Francesco Palaia, nell’ambito di una inchiesta della procura di Roma sulle deviazioni del cosiddetto “Super-Sismi”. Il documento, datato 19 maggio 1981, conferma che l’attentato di Ağca è stato «progettato e organizzato dal Kgb su indicazione del ministro della Difesa sovietico, allarmato per la crescita del potere di Solidarność in Polonia». L’appunto, però, non viene mai trasmesso all’autorità giudiziaria.
Una versione meno balzana delle altre
Fra le mille, altalenanti verità fornite da Ağca, forse una delle meno balzane e più credibili è quella che ha raccontato quando era in carcere, nel 1997, con una delle sue tante lettere “spedite al mondo”. In quella lettera, il turco sostiene di avere mentito per le minacce ricevute in carcere dai servizi segreti bulgari e rivela che esattamente venti anni prima, nel 1977, è stato addestrato in un campo terroristico palestinese, in Siria, da istruttori provenienti da Sofia e da Berlino Est; aggiunge che poi il Kgb lo ha infiltrato come «agente provocatore» nei Lupi grigi; e infine che proprio i servizi segreti sovietici hanno terminato il suo addestramento in Bulgaria per prepararlo all’operazione contro il Papa. Ma anche questa versione, cui anche Priore ha dato la patente di massima credibilità, viene poi velocemente smentita da Ağca, esattamente come tutte quelle che l’hanno preceduta. Nel 1998 l’attentatore ha poi messo fine alla ridda di versioni incoerenti e ha concluso: «Non ho mai avuto un complice, ho fatto tutto io». Due anni dopo, il 13 giugno 2000, Ağca è stato improvvisamente graziato ed è tornato in Turchia, dove la condanna a morte era già stata amnistiata. Qui ha scontato quanto restava della sua pena, ma – sorprendentemente – non è mai stato interrogato: mai, nemmeno una volta.
In un’intervista che mi dette nel 1992, a Roma, l’ex pubblico ministero Antonio Marini descrisse Ağca come «un kamikaze islamico ante litteram». E aggiunse di essere certo che non avesse agito da solo: «Lo hanno fatto evadere in Turchia e gli hanno armato la mano», raccontò, «probabilmente promettendogli che anche se fosse stato catturato lo avrebbero fatto nuovamente fuggire. Poi, invece, lo hanno abbandonato». Secondo questo schema logico, l’attentatore di Karol Wojtyla per decenni avrebbe condotto un complesso gioco di ricatti, continuamente minacciando rivelazioni. Per ottenere la libertà o forse soltanto per restare in vita.
Quella rivelazione a Montanelli
Il mistero di Ağca, probabilmente, resterà tale per sempre. Non riuscì a scalfirlo nemmeno la sua stessa vittima, Karol Woityla, che nel Natale del 1983 andò a visitarlo nel carcere di Rebibbia, per portargli il suo perdono. Di quell’incontro restano alcune bellissime fotografie e, soprattutto, una frase che fu quasi estorta a Giovanni Paolo II da Indro Montanelli tre anni dopo, nel 1986: «Di una cosa mi resi conto con chiarezza», rivelò il Papa al direttore del Giornale, «e cioè che quell’uomo era rimasto traumatizzato non tanto dal fatto di avermi sparato, ma dal fatto di non essere riuscito, lui che come killer si considerava infallibile, a uccidermi. Era questo, mi creda, che lo sconvolgeva: il dover ammettere che c’era stato Qualcuno o Qualcosa che gli aveva mandato all’aria il colpo».
Aggiunse Montanelli: «Giovanni Paolo non fece mai, né nel rievocare quell’episodio né in tutto il resto della conversazione, il nome di Dio o della Provvidenza. Disse soltanto: “Qualcuno o Qualcosa”. Ma si sentiva benissimo che in quel Qualcuno o Qualcosa nessuno ci credeva quanto lui. E aggiunse anche, con un sorriso: “Per di più, essendo Ağca un musulmano, ignorava che proprio quel giorno era la ricorrenza della Madonna di Fatima”». Ma questo, per chi crede, è un Mistero nel mistero.
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