Possono bastare due sonore e colossali disfatte in poco più di un mese per convincere gli americani che la loro strategia in Siria è fallimentare? Sì e no.
STOP AI RECLUTAMENTI. Gli Stati Uniti hanno annunciato che, almeno per ora, non pescheranno più ribelli dal campo di battaglia siriano per addestrarli e trasformarli in una forza locale che combatta per conto degli americani lo Stato islamico, con la tacita promessa che a loro sarà consegnato il governo del paese dopo la caduta del dittatore Bashar Al-Assad. Allo stesso tempo però il portavoce del Pentagono, Peter Cook, ha anche specificato che «stiamo rivedendo il nostro programma di reclutamento, quindi abbiamo bloccato la selezione di nuovo reclute dalla Siria». Detto questo, «continueremo a sostenere le forze sul terreno e ad addestrare i ribelli già inseriti nel programma».
RIBELLI USA CON AL-QAEDA. Ad agosto l’esercito americano aveva fatto entrare in Siria un contingente di «60 soldati». Dopo pochi giorni, il gruppo è stato sbaragliato da Al-Qaeda, che ha rapito alcuni soldati, altri ne ha uccisi e altri ancora li ha convinti a unirsi al jihad. A settembre altri 75 ribelli addestrati dagli americani sono entrati in Siria: dopo appena un giorno, i miliziani locali di Al-Qaeda hanno pubblicato foto in cui mostravano di essere in possesso delle armi americane. Mentre il comandante della nuova brigata annunciava di essere passato con i jihadisti e di aver «preso in giro» gli americani per assicurarsi nuove armi.
JIHADISTI RADDOPPIATI. Dopo le dimissioni del colonnello Mohammad Al-Dhaher, responsabile del programma di addestramento, è cominciato il processo di «revisione del programma», che per il momento l’America non sembra voler abbandonare. Ma che la strategia del presidente Barack Obama non stia funzionando, lo si capisce anche dall’ultimo studio pubblicato dalla commissione sulla sicurezza interna del Congresso e riportato da Reuters. I dati contenuti dimostrano che in un solo anno, gli stranieri entrati in Siria per combattere contro lo Stato islamico sono passati da 15 mila a quasi 30 mila. Tra questi, ci sono 250 americani, più del doppio rispetto ai circa 100 rilevati fino all’anno scorso tra le fila dell’Isis.
DISCORSO ALL’ONU. Parlando all’assemblea generale dell’Onu, lunedì Obama ha insistito ancora sullo stesso tasto, ribadendo il concetto che va formulando da ormai due anni: l’Isis non è poi così temibile, «è circondato», ha i giorni contati, anche se «la guerra è ancora lunga», e comunque il problema più grosso è Assad, che deve andarsene. Le sue parole non hanno impedito allo Stato islamico di espandersi e di conquistare città importanti come Mosul, Palmira e Ramadi. Perché allora, si chiede il columnist storico del Wall Street Journal Bret Stephens, ripreso ieri dal Foglio, «il presidente professore che adora parlare di episodi formativi sembra non imparare niente?».
«NECESSITÀ IDEOLOGICA». Secondo Stephens, il presidente ha una «necessità ideologica»: «Vuole dichiarare risolti i dilemmi americani in politica estera per potersi concentrare sul suo compito preferito, il “nation building at home”. Una strategia di ritiro e appeasement, un pregiudizio contro l’intervento militare, il favore accordato a risposte minime: l’obiettivo è quello di allontanare l’America dalle tragedie delle altre persone».
«DALLA PARTE GIUSTA». Alla base di questa strategia, che si sta rivelando fallimentare dall’Ucraina all’Afghanistan passando per Siria e Iraq, c’è un pensiero ben preciso. Per il presidente, continua Stephens, è sufficiente «essere dalla parte giusta della storia». «Dopo aver dichiarato le nostre buone intenzioni, perché sporcarsi le mani con il rozzo e compromettente esercizio del potere? Nella visione di Obama, non è l’uomo sul campo che conta, è l’oratore sul palco. (…) Fare lezioni è più facile che imparare, e predicare più facile che agire».
LA FUGA. Questa la conclusione del commentatore del Wsj: «La storia ricorderà Barack Obama non come il presidente che ha condotto la sua politica estera come un’applicazione del potere americano basata sui princìpi, ma come un tentativo generale di giustificare la propria fuga da esso. Da Aleppo, a Donetsk a Kunduz, i popoli vivono con le conseguenze di questa fuga».
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